Sab. Apr 19th, 2025

Ettore Recchi, un sistema rotatorio per la ‘brain circulation’ tra Europa e Paesi d’origine

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Ettore Recchi, professore ordinario di Sociologia presso Sciences Po a Parigi e professore a tempo parziale del Migration Policy Center dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, ci aiuta a capire meglio i fenomeni migratori e le loro radici storiche e sociologiche, fissando lo sguardo sulle attuali politiche di gestione europee e italiane.

Professore, partiamo dall’Europa. Qual è la situazione sociale dell’Europa in riferimento alle migrazioni contemporanee?
Nell’ultimo quarto di secolo, l’Europa è diventata un continente attrattivo quanto il Nord America per i flussi globali di migrazioni. Questo per ragioni geografiche, economiche e politiche. E’ importante ricordare che la maggior parte dei flussi dipende dalla domanda dei paesi riceventi, in un contesto di invecchiamento della popolazione e di squilibrio nelle composizione della forza lavoro per competenze acquisite e bisogni settoriali, effetto di un’espansione dei livelli di istruzione non sempre accompagnato da un upgrade della struttura occupazionale. Di forza lavoro immigrata giovane c’è bisogno perché l’Europa ha sempre meno lavoratori giovani nativi, particolarmente (ma non solo) nei lavori manuali che non possono essere delocalizzati, come la cura alla persona, il turismo e l’edilizia.

Quali sono i principali flussi migratori che oggi convergono in Europa e quali criticità emergono in riferimento alla loro gestione? Ci sono zone d’Europa più aperte all’integrazione e altre dove la xenofobia rende l’accoglienza più difficile?
A seguito dell’allargamento dell’UE ad est, dal 2004 al 2013, i serbatoi di reclutamento principale della forza lavoro immigrata si trovano nello spazio comune europeo, o nelle aree limitrofe (compresa l’Ucraina, già prima della guerra). In misura minore, vi sono afflussi da altre zone del mondo, lungo direttrici “specializzate” (pensiamo all’America Latina, i cui migranti convergono verso la penisola iberica).
L’accresciuta presenza di immigrati anche in paesi europei che in passato ne avevano accolto un numero limitato, come la Spagna e l’Italia, comporta una tensione tra la necessità di incorporare i nuovi arrivati e resistenze alimentate dai movimenti nazional-localisti. L’ostilità verso gli immigrati non ha una precisa collocazione geografica, bensi’ sociale. Ovunque in Europa, gli immigrati sono il capro espiatorio di un risentimento sociale diffuso soprattutto nelle classi medio-inferiori che si nutre della crescita – coeva all’immigrazione ma non prodotta dall’immigrazione – della distanza socioeconomica dalle classi superiori, in termini di reddito e di pratiche sociali. Sulla crescita della diseguaglianza economica molto si è scritto. Per parte mia, vorrei sottolineare anche la dimensione culturale di questa separazione. Le classi superiori negli ultimi decenni si sono globalizzate (viaggi, conoscenza delle lingue, reti sociali internazionali), il che le avvicina paradossalmente agli immigrati più che alle classi medio-inferiori native, “bloccate” nei loro spazi tradizionali. 

Da questo punto di vista, credo sia necessario soffermarsi su un concetto elaborato nei suoi scritti, quello di “space-set”. Cosa intende con questo termine? E quanto influisce sull’integrazione degli immigrati in Europa?
Il concetto di “space-set” descrive l’insieme di luoghi significativi per l’individuo, che contribuiscono a definirne il senso di appartenenza e partecipazione sociale. Per i migranti, cosi’ come per i nativi più globalizzati, lo “space-set” include non solo il luogo di residenza, ma anche i luoghi esperiti nel corso di una vita “mobile”. Le mie ricerche mostrano che uno “space-set” ricco e diversificato si associa a una visione più aperta alla diversità socioculturale, mentre esperienze socio-spaziali circoscritte si traducono in una concezione “parrocchiale” della realtà.

Lei si è occupato anche dell’impatto del Covid in riferimento alle diseguaglianze sociali. Quanto il binomio mobilità-sedentarietà e quello povertà-benessere influiscono sugli impatti degli eventi catastrofici?
La pandemia di Covid-19 ha amplificato le diseguaglianze sociali, malgrado le protezioni sociali straordinarie attivate dai paesi europei. Queste misure di prevenzione, tuttavia, hanno soprattutto giovato a chi poteva permettersi di lavorare a distanza – cioè le fasce sociali già più privilegiate. Lo smart working, come lo si chiama in Italia, ha aggiunto un grado di separazione ulteriore tra le classi sociali. La pandemia ha finito per amplificare le diseguaglianze socioeconomiche. Alla lunga, vi sono molti dati che dimostrano come i migranti, spesso occupati in settori essenziali ma precari, sono stati tra i più colpiti sia in termini sanitari che economici.

Quale giudizio esprime in riferimento al Patto per le migrazioni 2024 dell’Unione europea?
Il Patto per le migrazioni 2024 rappresenta un piccolo passo avanti nella volontà di creare un sistema comune per la gestione dei flussi migratori. Tuttavia, rimangono criticità, in particolare riguardo alla redistribuzione dei migranti e alle misure di solidarietà tra Stati membri. Personalmente, non mi è chiaro come il patto potrà tradursi in pratiche condivise di gestione dei richiedenti asilo.

Se domani fosse investito del potere di intervenire sugli attuali processi di gestione dei flussi migratori, in che modo li modificherebbe?
Punterei su un’espansione robusta ma controllata dell’immigrazione legale. Robusta, nel senso di ammettere un volume di lavoratori stranieri in linea con la domanda complessiva del sistema produttivo, che è ben superiore a quella delle “quote” italiane. Questo ampliamento porterebbe a una diminuzione dei flussi irregolari e della tragedia connessa delle morti e delle sevizie lungo il percorso migratorio, la cui vera fonte è l’assenza di vie di ingresso legale. Come contropartita, vedo due contrappesi. Il primo è una valutazione caso per caso di competenze e motivazioni alle migrazioni, più o meno nella logica della selezione “a punti” già usata in molti paesi democratici. Il secondo è un patto individuale di ammissione a tempo, per favorire la cosiddetta “brain circulation”, con permessi di 2-3 anni, rinnovabili solo a condizioni relativamente straordinarie. Un sistema rotatorio, con intervalli tra un periodo in Europa e un eventuale periodo successivo di uguale durata nel paese di origine (o altrove), che potrebbe anche fare da volano di sviluppo nei luoghi di origine.

di Maria Lucia Tocci

Studiosa del diritto. Attivista per la pace e per i diritti civili.

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