Mar. Giu 24th, 2025

Tante ragioni per dire sì, nessuna per il no

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L’8 e il 9 giugno si voterà per i cinque referendum abrogativi ammessi dalla Corte Costituzionale, di cui quattro riguardanti la soppressione di alcune parti del Jobs Act e di altre disposizioni normative sul lavoro, e uno relativo all’acquisto della cittadinanza italiana.

A dire il vero, alcuni avrebbero sperato che fossero sei i referendum per cui votare.
Effettivamente, il mancato superamento del vaglio di ammissibilità del quesito referendario per l’abrogazione della legge Calderoli aleggerà pesantemente sulle urne, come un’assenza ingombrante ben visibile agli occhi degli elettori. Ma, come spesso accade nel grande gioco mediatico, sono le più importanti e potenziali riforme a passare in secondo piano sotto il mantello del fantasma del referendum. Non è un caso che si sia parlato a oltranza dell’autonomia differenziata, dando l’illusione di poter smantellare il regionalismo differenziato per mezzo dell’abrogazione di una legge che, in realtà, è solo esecutiva di un principio già presente nella Costituzione.
S’è parlato poco e niente, invece, dei cinque referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno, con il rischio che i seggi elettorali vadano deserti e togliendo ai cittadini la possibilità di cambiare con responsabilità lo stato delle cose.
Perciò, pur nella consapevolezza della difficoltà nel raggiungimento del quorum, è opportuno chiarire per cosa si va a votare e perché si dovrebbe marcare il “sì” nelle cinque schede, se non altro per scrupolo civico e per continuare a seminare senza sosta il proprio impegno politico.

SCHEDA VERDE – Il primo quesito referendario mira ad affossare uno dei decreti del Jobs Act relativo ai contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Lo stato attuale delle cose, venutosi a creare a partire dall’entrata in vigore del Jobs Act (per il primo quesito l’attenzione si concentra sul d.lgs. n. 23/2015), vede una tutela attenuata, per non dire inesistente, dei lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti davanti all’ipotesi di licenziamenti illegittimi. Per tutti i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, infatti, è iniziato il periodo nero delle tutele lavorative, giacché è stata negata loro la possibilità di rientrare sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo.

Fino al 7 marzo 2015, i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato godevano di una tutela forte in caso di licenziamento senza una giusta causa o giustificato motivo. Questa tutela era prevista dall’art.18 e, nella maggior parte dei casi, portava alla reintegrazione nel posto di lavoro oltre al pagamento di una indennità risarcitoria per il periodo in cui il lavoratore era rimasto a casa.
La logica di questo sistema era chiara: se il licenziamento è ingiusto, si torna al punto di partenza, come se non fosse mai avvenuto.

Il governo Renzi, accecato dall’ossessione di rendere più flessibile il mercato del lavoro allo scopo di attrarre maggiori investimenti imprenditoriali in Italia, ha effettuato un cambio di rotta con il Jobs Act. Quest’ultimo ha introdotto un nuovo tipo contrattuale, detto appunto “a tutele crescenti” e destinato ai nuovi lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015. La parola “crescenti”, tuttavia, si riferisce all’indennità in caso di licenziamento e non alle garanzie reali come la reintegra. Infatti, il principio di base cambia radicalmente: la reintegrazione nel posto di lavoro diventa l’eccezione, mentre la regola generale è il riconoscimento di un’indennità economica. Si decide dunque di limitare la reintegrazione a casi molto gravi, come il licenziamento discriminatorio o manifestamente infondato. In tutte le altre ipotesi di licenziamenti ingiustificati l’unica forma di ristoro riconoscibile al lavoratore è il risarcimento monetario, variabile nel suo ammontare in base all’anzianità di servizio (da 2 a 24 mensilità).

Il risultato? Il regime attuale di tutela è più debole rispetto al passato.
Se è vero che ciò che viene dopo è una migliore versione del precedente, il Jobs Act ha ribaltato questa visione, rendendo ora necessario fare un passo indietro, verso il ripristino dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300/1970), così come l’aveva prospettato la legge Fornero (l. n. 92/2012) sotto il governo Monti.

SCHEDA ARANCIONE – Il secondo quesito ha l’obiettivo di eliminare il limite massimo di indennità risarcitoria percepibile, in caso di licenziamento illegittimo, dal lavoratore assunto in un’impresa con meno di 16 dipendenti.
Tale quesito tenta di perseguire lo stesso fine del primo referendum abrogativo: rafforzare le tutele dei lavoratori nel momento patologico del rapporto con il proprio datore di lavoro e rinvigorire la forza contrattuale del lavoratore, in un’ottica di deterrenza e di maggiore responsabilizzazione delle condotte del datore di lavoro, anche se titolare di una piccola e media impresa.
Il tentativo di riforma, in questo caso, riguarda lo Statuto dei lavoratori che, per quanto pregevole nei suoi intenti, non può sottrarsi a degli aggiustamenti, soprattutto in vista di migliori prospettive di tutela da accogliere.

Attualmente ci sono 3 milioni e 700 mila lavoratori assunti presso imprese di piccole e medie dimensioni, sforniti di misure adeguate per fronteggiare un licenziamento senza giusta causa. Il massimo di indennità ricevibile, qualora un dipendente dovesse essere messo alla porta ingiustificatamente, sarebbe pari a 6 mensilità. E chi bazzica nel mercato del lavoro dovrebbe sapere che collocarsi nuovamente nell’arco di sei mesi è un’impresa titanica.

Ciò che si ignora è che limitare l’indennizzo per licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese rischia di incentivare comportamenti opportunistici da parte dei datori di lavoro. Se il costo massimo di un licenziamento arbitrario è predeterminato e sostenibile, esso può diventare per l’imprenditore una scelta calcolata anziché un atto da evitare.
Un simile assetto normativo manda un messaggio pericoloso: che la gravità di un licenziamento ingiusto dipenda dalle dimensioni dell’impresa e non dalla violazione dei diritti fondamentali del lavoratore.
A ciò si aggiunge un ulteriore effetto: un sistema che offre tutele deboli indebolisce anche la qualità del lavoro. Quando i lavoratori sanno di poter essere allontanati ingiustamente con un’indennità limitata, si genera insicurezza, sfiducia e minor motivazione, soprattutto nei contesti più fragili come le micro e piccole realtà.

Inoltre, il legislatore che ha fissato il tetto massimo all’indennità liquidabile ha preteso di livellare le posizioni dei lavoratori, che invece sono sfaccettate e meritano di essere valutate caso per caso, compito questo che spetta al giudice. Dovrebbe essere lui, infatti, a stabilire la giusta misura risarcitoria da applicare al caso di specie, sulla base di elementi fondamentali quali la capacità economica dell’azienda, l’anzianità del lavoratore e i carichi familiari.

SCHEDA GRIGIA – E poi c’è la piaga dei contratti a termine, quelli di cui i datori di lavoro fanno un uso spropositato. Gli stessi tipi contrattuali che spingono molti nelle braccia del settore pubblico per cercare stabilità, quelli che costringono a procrastinare ulteriori progetti di vita in attesa di una certezza economica. Il terzo quesito vorrebbe porre un argine all’utilizzo dei contratti a termine, vincolando il datore di lavoro che volesse farne uso a inserire una causale.
Sembra che fosse ieri quando politici ed economisti del governo Renzi enfatizzarono l’utilità dei contratti a termine come strumento in grado di favorire l’ampliamento delle competenze e la crescita professionale dei lavoratori. Nel frattempo, però, la fossa della precarietà era già ben predisposta.
Il “sì” sulla scheda grigia consente di interrompere questo meccanismo capzioso, ribaltando le carte in gioco: il contratto a termine deve costituire l’eccezione e non la regola.

SCHEDA ROSSA – L’ultimo referendum abrogativo sul lavoro riguarda la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, in particolare nelle grandi imprese, all’interno delle quali le catene produttive vengono segmentate in appalti e subappalti.
Le ragioni del “sì” militano per l’estensione delle responsabilità da infortunio sul lavoro all’impresa appaltante, al fine di responsabilizzarla nell’individuazione della migliore impresa appaltatrice, non già secondo la logica del massimo ribasso, ma in virtù della capacità dell’appaltatore nella gestione del personale, dei turni, dei rischi, della formazione e della vigilanza.
Ogni anno si registrano oltre 500.000 infortuni e più di 1.000 vittime, con circa 700 decessi concentrati nel sistema degli appalti e dei subappalti, in cui i controlli si diradano e la sicurezza finisce in fondo alla lista.
Votare “sì” l’8 e il 9 giugno significa scegliere una direzione precisa: interrompere la spirale di infortuni e morti sul lavoro che da anni caratterizzano il mondo produttivo italiano.

SCHEDA GIALLA – Il quinto quesito propone di ridurre da dieci a cinque anni il periodo minimo di permanenza ininterrotta in Italia per presentare domanda per l’acquisto della cittadinanza italiana. È importante chiarire che non si tratta di un ottenimento automatico: anche con la vittoria del “sì” chi vorrà ottenere la cittadinanza italiana dovrà comunque dimostrare di conoscere la lingua italiana e la Costituzione, di possedere una fedina penale pulita e pagare regolarmente le imposte.

In un contesto segnato da un’ansia diffusa per i flussi migratori, tale referendum abrogativo si scontra con una narrazione ricorrente nel dibattito pubblico, soprattutto nei discorsi politici della destra: quella secondo cui l’Italia è invasa da immigrati che, accettando condizioni di lavoro più sfavorevoli, danneggiano direttamente la classe operaia italiana. Ma entrambe le narrazioni sono infondate.
Intanto, dal 2008 a oggi, i flussi migratori verso l’Italia sono stati sostanzialmente stabili, non registrandosi aumenti vertiginosi.
È vero invece che le naturalizzazioni sono numerose, ma questo è dovuto a un’altra ragione: chi oggi ottiene la cittadinanza è spesso arrivato in Italia molti anni fa, ha vissuto qui a lungo, ha lavorato, ha costruito una famiglia e solo oggi, dopo aver maturato tutti i requisiti e superato anni di attese burocratiche, arriva alla fine del percorso.
La cittadinanza italiana non è concessa con tanta leggerezza. Ecco perché escludere per troppo tempo chi già vive in Italia significa creare una frattura sociale. Si tratta di immigrati che risiedono stabilmente nel territorio italiano, che pagano le tasse, che mandano i figli a scuola, che studiano, lavorano, crescono e partecipano alla vita quotidiana del Paese, ma non hanno diritto di voto né possibilità di incidere sulle decisioni collettive che li riguardano.

In seconda battuta vale la pena di ricordare che se gli immigrati accettano condizioni lavorative peggiorative è perché si trovano in condizioni di vulnerabilità o di grande disinformazione.
Quanto al declino del proprio tenore di vita sperimentato dalle classi medie italiane in questi anni, la responsabilità non è di certo degli immigrati, ma piuttosto di una globalizzazione non regolata, colpevole di aver ridotto i salari e reso precario il lavoro.
La soluzione a tale difficoltà va ricercata invece nell’adozione di una politica che migliori concretamente i servizi pubblici, aumenti i salari e ridia dignità al lavoro.

Si può discutere se il referendum abrogativo sia lo strumento più adatto per intervenire su una materia così articolata. Forse no. Ma in mancanza di un referendum propositivo, e con un Parlamento che da tempo evita il confronto serio su questi temi, resta solo l’iniziativa popolare per cercare di rimettere in discussione una legge che oggi appare sproporzionata e anacronistica rispetto alla realtà sociale del Paese.

di Maria Lucia Tocci

Studiosa del diritto. Attivista per la pace e per i diritti civili.

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