Vito Bergamo mi accoglie nel museo di Calimera, circondato da oggetti antichi e tracce preziose di una lingua che sopravvive per miracolo. Comincia subito a parlare, scandendo chiaramente ogni parola, consapevole del peso della memoria che porta.
«Per comprendere davvero la nostra cultura bisogna partire dalla lingua», dice Bergamo con voce decisa. «Anche voi, che venite dalla provincia di Taranto, fate parte di quella tradizione greca dorica antichissima che meriterebbe di essere recuperata e valorizzata.»
«La lingua grika», mi spiega, «ha origine ufficiale intorno al 500 d.C., con l’arrivo dei monaci basiliani che, fuggendo dai pirati saraceni, giunsero nel Salento. Essi trovarono pochi abitanti, sopravvissuti alle devastazioni dei Goti, ma già capaci di parlare un greco contaminato. Questi erano i discendenti dei Messapi, che avevano adottato il greco secoli prima. Così, nel 535, dopo la vittoria dell’esercito bizantino sui Goti, i monaci si diffusero in tutto il Salento, costruendo luoghi di preghiera e di vita quotidiana e insegnando non solo agricoltura, ma anche il greco.»
Quando gli domando delle origini precise di questa lingua, Bergamo scuote lentamente la testa: «È complicato tracciarle con esattezza. Quei monaci trovarono radici linguistiche greche già preesistenti: micenee, doriche, ioniche. Con il tempo, queste lingue si uniformarono in quella che oggi chiamiamo bizantina. Ma nel Settecento la situazione cambiò radicalmente, con l’apparizione del volgare derivato dal latino che, da allora, ha camminato accanto al griko, scambiandosi vocaboli.» Bergamo sorride ironicamente: «Per questo ci chiamano gente con due lingue.»
Cita poi Antonio De Ferraris, il quale raccomandava di non abbandonare il dialetto romanzo, considerato la “lingua madre”, destinata a sopravvivere al griko. «Fino al 1500 il griko era largamente diffuso», continua Bergamo, «ma con la latinizzazione voluta dalla Chiesa, la lingua iniziò lentamente a scomparire da Gallipoli, Casarano, Galatone e Galatina. Rimase una fascia limitata, tra Soleto e Otranto, sostenuta dal vescovado greco, riducendosi progressivamente a pochi paesi, quelli che oggi formano la Grecìa Salentina. Ora solo cinque o sei di questi paesi conservano realmente la lingua.»
Mi fornisce numeri precisi: «Calimera è il centro principale, con circa 2500 parlanti fino a qualche anno fa, Sternatia ne conta circa 350, Zollino una cinquantina, Martano, un tempo cuore pulsante del griko, ne mantiene appena un centinaio.» Gli chiedo perché questa lingua sia svanita così rapidamente. «Mille ragioni», risponde con serietà. «Negli anni Venti del Novecento, diversi studiosi si interessarono al griko, ma il popolino iniziò a vergognarsene, spinto dalle scuole a parlare italiano per non essere definito ignorante. Poi arrivò la televisione e il griko crollò definitivamente: in famiglia non si dialogava più, si ascoltava soltanto lo “sparaparole” della TV.»
Il volto di Bergamo si colora di malinconia quando parla delle tradizioni perdute: «Il Natale è cambiato completamente: spariti i presepi di creta fatti in casa, sostituiti da alberi di Natale in plastica con regali portati da un Babbo Natale sconosciuto fino ad allora. È scomparso anche il baciamano ai genitori, gesto di rispetto e tradizione. Quei pochi soldi ricevuti in occasione delle feste, le madri dicevano di conservarli, ma in realtà servivano per comprare il pane.» Prosegue con amarezza raccontando di altre usanze dimenticate: «Il 28 dicembre, festa degli Innocenti, era un giorno dai risvolti oscuri, pieno di scherzi crudeli e rituali che a volte degeneravano, censurati poi dalla Chiesa stessa. Oggi nessuno ne ricorda nemmeno l’esistenza.»
Prima di passare alla stanza successiva, Bergamo mi porge un libro: «Questo è il mio primo libro, racconta la mia infanzia negli anni Cinquanta, quando a scuola ci punivano se parlavamo griko. Leggilo e capirai perché abbiamo perso la nostra lingua.» Mentre ci muoviamo tra gli oggetti antichi, la sua voce mescola rimpianto e orgoglio: «Ci siamo arresi al commercio, al progresso, ai panettoni, che hanno preso il posto delle nostre cartellate. Noi le chiamiamo caranci, dolci natalizi originari di Creta e diffusi poi in tutto il sud Italia. Così le nostre tradizioni sono scomparse, una dopo l’altra.»
Bergamo parla anche dei giochi dell’infanzia, oggi dimenticati o italianizzati, come “Quante belle figlie, Madama Dorè”, originariamente giocato solo in griko. «La memoria oggi è fondamentale per testimoniare ciò che eravamo e che rischiamo di perdere definitivamente.» Riflette poi sulla tecnologia, con franchezza disarmante: «Viviamo nell’era della cosiddetta intelligenza artificiale, che io definisco superficiale, perché spesso non è al servizio di tutti ma del profitto. Potrebbe guarire persone, risolvere problemi, ma solo per chi può permetterselo.»
Quando gli chiedo dei mestieri, Bergamo si illumina: «Guarda questo paniere, era delle raccoglitrici di olive: inginocchiate, le raccoglievano una ad una. C’erano vigne splendide come quella del 1884, proprietà Lopez, distrutta poi dalla peronospora. Poi ci sono le “patanare di Calimera”, coltivatrici di patate dolci dal 1873, esportate persino in Grecia e Albania. Un lavoro duro, preciso, con acqua dosata all’alba per non bruciare le piante.» Mi mostra attrezzi agricoli ormai scomparsi, e parla di mestieri cancellati dal progresso industriale, come muratori, carbonai, cavamonti e zoccatori. Mi racconta poi usanze insolite come il bucato fatto con l’aceto, la cenere e le bucce di agrumi, procedimento da cui si ricavava la lisciva, efficace contro i pidocchi ma cancerogena.
Attraversiamo sale dedicate all’illuminazione antica, fino ad arrivare ad una particolare tela: «Questa Madonna incinta sembra ballare una rappresentazione unica».
E mentre la tela della Madonna incinta danza silenziosa sotto le luci soffuse del museo, mi accorgo che non sto solo attraversando un’esposizione: sto varcando un confine tra ciò che resta e ciò che si perde. Vito Bergamo è un traghettatore di memorie, un Odisseo rimasto sulla sua isola per raccontare ai naufraghi del presente cosa c’era prima della deriva. Le sue parole, affilate dalla nostalgia ma salde come radici, sono un monito: ciò che è scomparso non è soltanto una lingua o un rito, ma un modo di stare al mondo, una sapienza collettiva che il tempo ha silenziato più dell’oblio.
Quando esco dal museo, porto con me il peso leggero di una domanda: cosa resta di noi quando smettiamo di nominarci nelle nostre stesse parole? Forse, come in quel canto antico, anche noi sopravviviamo per miracolo, ma solo finché qualcuno è disposto a raccontarlo.