Voglio lamentarmi di un parallelismo che non sopporto. Immaginate la scena. Ecco la prof di turno
che, durante l’open day, per convincere tredicenni a iscriversi al classico fa leva sui loro genitori,
che sono andati a farsi un giretto anche in quella scuola perché tutti dicono che “apre la mente”,
sono cresciuti con questo mito, la loro nonna aveva fatto il classico e quindi avevano già il Rocci e
il Campanini Carboni in soffitta, ma poi lo sanno tutti che il classico apre la mente, suvvia, che
soddisfazione poter dire alla collega Patrizia che ho iscritto Piergiorgio Quinto Orazio al classico (si
chiama così perché anche la nonna del classico ha dato il suo contributo alla scelta). E si arriva al
tasto dolente, alla domanda delle domande, alla questione di vita o di morte. Rimbomba nella testa
di mamma papà e Piergiorgio, ma anche in quella della prof, che se l’aspetta e che perciò li anticipa
con una spiegazione, perché non vuole proprio sentir pronunciare quella domanda. Mamma papà e
Piergiorgio un po’ si vergognano a porla. È chiaro, stiamo parlando di: «Ma a che servono greco e
latino?». La prof, dicevo, li batte sul tempo, prima ancora che possano aprire bocca, e già si
pregusta la scena di consenso che otterrà dopo la propria spiegazione. Si schiarisce la voce come se
dovesse intonare un La. Inizia la melodia: «Tradurre dal latino e dal greco è come risolvere
un’equazione di matematica! Applichi tanta logica, lavori di ragionamento…spesso gli studenti bravi
in queste discipline sono anche quelli bravi in matematica. Non sarà un caso!». E invece mi sa che è
proprio un caso. Io non ho mai capito che cazzo c’entri l’equazione con la traduzione di un carme
omoerotico o di un’epistola all’amico. E mi sentivo in colpa, perché la prof di italiano un giorno mi
chiese quanto prendessi in greco, latino e matematica e ne rimase stupita, perché c’era una
discrepanza tra i voti alti nelle prime due materie e bassi nell’ultima. Lo sconcerto sul suo volto, vi
assicuro.
Mi chiedo il perché della necessità di farci spalleggiare dalle discipline scientifiche. Spalleggiare?
Che dico! Legittimare, avallare, suffragare. Che poi, anche la traduzione è una scienza. La filologia
pure e compagnia cantante. Usiamo una parola in più e specifichiamo che la matematica rientra tra
le scienze dure, le scienze esatte, ma la definizione di queste ultime – se non la sapete – ve l’andate a
cercare su Treccani. In ogni caso, ritorno al non capire perché ci sentiamo quasi in obbligo di
legittimare lo studio del greco e del latino comparandolo allo svolgimento di un’operazione
matematica. Ci sentiamo quasi meglio, no? Perché la matematica è una cosa seria, è una cosa che
serve nella vita, perché “matematica” non contiene solo la parola “matematica”, ma un universo
intero. E se a tuo figlio piace la matematica ci sono buone probabilità che dopo scelga Ingegneria,
mentre se non gli piace la matematica, se proprio non la tollera, se manifesta i segni della più
profonda idiosincrasia…beh, genitori, arrendetevi! Lo so, lo so, adesso mi direte di non fare di tutta
l’erba un fascio. Ma a me non interessa la diplomazia, in questo momento. Allora, recuperiamo
ancora una volta – l’ultima, giuro, basta divagazioni – la questione della traduzione, ecco, mi
interessa tornare proprio lì.
Lo sapete perché ritengo questo parallelismo con la matematica deleterio? Perché poi gli studenti
non guardano alla versione di latino o greco come un testo scritto. Non ci credete? Io vi dico che è
così, per esperienza personale (no, nessuna cattedra, do solo ripetizioni private per ora e – chissà –
magari per sempre). Questi ragazzini – e all’inizio francamente lo pensavo pure io – pensano che la
versione sia un insieme di codici indecifrabili, un rebus, un enigma impossibile. In un certo senso
questa percezione è condivisibile, è plausibile che l’impatto sia ogni volta quello di un incontro con
l’estraneità, che produce a sua volta straniamento. E ben venga che sia così. Però, c’è un però. Dopo
lo shock, diventa necessario guardare a quella successione di parole come un testo, altrimenti si
rischia di disconoscere la letteratura. La letteratura e l’umanità. Erano uomini in carne ed ossa che
respiravano come noi, ma non solo: cantavano, mangiavano, correvano, piangevano, pisciavano,
odiavano, speravano, si svegliavano con un nuovo fastidio ogni mattina, odiavano, puzzavano.
Amavano. Cagavano. Si rischia di dimenticarsi che quelle parole le aveva scritte una persona in
carne ed ossa e tutto sembra dunque così distante e tremendamente inutile. Distante lo è, siamo
d’accordo, quanti secoli separano me che digito sullo smartphone e un tale che scriveva su tavolette
cerate? Mi vengono i brividi. D’accordo, ma mi vengono i brividi a pensare anche a quanti pochi
decenni separano me che oggi posso votare e una mia coetanea che assisteva da lontano senza poter
esprimere la propria preferenza. Mi vengono i brividi ancor di più. Potrei continuare, ma volevo
solo fare degli esempi sulla relatività della nostra percezione. Dopotutto, non è distante qualsiasi
abitudine praticata prima dell’invenzione della stampa? O della pila elettrica? O della locomotiva a
vapore? O dell’aeroplano? Anzi, menziono quella che le batte tutte: l’invenzione del telefono. Ma
che dico del telefono? Dello smartphone! Oggi avvertiamo come remoto persino il tempo di
Facebook e di Messenger. Da Steve Jobs in poi, ogni decennio – se non quinquennio – vale un
secolo.
Bene, dicevo che tutto sembra così distante – lo abbiamo appena confermato – e tremendamente
inutile. Sia confermato anche questo. È un atto contrario all’utile, si oppone con vigore
all’utilitarismo imperante per come viene concepito oggi. In termini più sofisticati, non serve a un
cazzo. Mi soffermerei sulle due parole che ho appena utilizzato, ossia “utile” e “serve”, che hanno a
che fare entrambe con l’apportare beneficio a qualcuno, ma anche con un’idea di dipendenza, con il
sottostare a una determinata esigenza. Pensiamoci su. Se qualcosa ti serve, ne hai bisogno tu, ma al
contempo è quella cosa che serve te, nel senso che si mette a tua disposizione. Se qualcosa ti è utile,
tu ne fai un uso, ne usufruisci, e quella cosa ti arreca un vantaggio: il tuo vantaggio è connesso a
quella cosa, per dirla con un eufemismo, ma se vogliamo un disfemismo diremo che il tuo
vantaggio è legato, vincolato, assoggettato ad essa.
Da quando ho incontrato il greco e il latino non ho mai smesso di interrogarmi sul senso di
conoscere, tradurre, amare queste lingue e le civiltà che le parlavano. Sono passati dieci anni. Al
momento, almeno ho risposto al tasto dolente, alla domanda delle domande, alla questione di vita o
di morte. Tradurre queste lingue morte non serve a un cazzo o, meglio, non serve un cazzo. È
anarchia pura, lo dici in giro e abbassano gli occhi un po’ intimoriti un po’ interdetti, sei
palesemente da ricovero. Ma come, la traduzione non era una scienza? Ecco, è arrivato il luminare
di turno. Come la spieghi una questione che ha esaurito fiumi d’inchiostro? “L’arte della
traduzione” o “la scienza della traduzione”? Il traduttore come artigiano, l’artigiano come artista,
l’artista come scienziato e la scienza come arte e anche basta, a una certa due palle così. Se si trova
il senso è finito il gioco, è finito il bello. Voi lo sapete qual è il senso della vita? Ovviamente no,
non può saperlo nessuno e mai si scoprirà. E allora non rompete il cazzo! Se Piergiorgio Quinto
Orazio è incuriosito dalla scuola in cui si insegnano il greco e il latino, lasciatelo libero di iscriversi!
Poi se la vedrà lui. Tranquilli, Ingegneria la può scegliere lo stesso. Preoccupatevi che non scopra di
essere omosessuale.
Sull’(in)utilità del greco e del latino

