José Saramago scriveva: “La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva” (Saggio sulla lucidità). Una citazione che sembra calzare a pennello sulla recente pronuncia della Corte Costituzionale sulla legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Un verdetto che non è né una vittoria schiacciante né una sconfitta assoluta. Questo si riflette nell’esultanza trasversale: dai partiti di governo, come Lega e Forza Italia, a quelli di opposizione, ognuno ha trovato un motivo per rallegrarsi. Un equilibrio fragile, una sorta di pareggio politico, che ci ricorda quanto complesse siano le dinamiche istituzionali.
GLI ESTREMI DELLA FACCENDA – Per capire la portata di questa decisione, occorre tornare sui fatti. Mentre si raccoglievano le firme per il referendum abrogativo della legge Calderoli, le regioni Puglia, Campania, Toscana e Sardegna hanno presentato un ricorso alla Corte Costituzionale. Secondo loro, diversi aspetti della normativa sull’autonomia differenziata violavano i principi della Costituzione.
Nonostante la Corte abbia dichiarato parzialmente incostituzionale la legge (significa che parzialmente invece è compatibile), il processo referendario non ne è stato ostacolato. Sarà la Consulta a stabilire se e come il referendum potrà svolgersi. Tuttavia, il giudizio rappresenta un precedente significativo, evidenziando la necessità di rivedere alcuni punti fondamentali della legge per renderla pienamente conforme alla Costituzione.
LA PRONUNCIA E I SETTE PUNTI – Veniamo alle criticità. In primo luogo, la Corte ha evidenziato che il trasferimento indiscriminato di competenze alle regioni contrasta con il principio di specificità sancito dalla Costituzione, rendendo il processo troppo generico e privo di criteri chiari. Un altro punto critico riguarda il ruolo del Parlamento, che nella legge risultava ridotto a una funzione meramente passiva, limitata alla ratifica delle intese senza un reale coinvolgimento decisionale.
Particolare attenzione è stata poi riservata ai Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), la cui determinazione, secondo la Corte, non può essere affidata esclusivamente al Governo. È necessario, invece, un processo più trasparente e condiviso, che coinvolga tutte le istituzioni competenti. Anche il finanziamento delle funzioni trasferite è stato oggetto di critica: la legge non garantiva una correlazione adeguata tra le risorse economiche trasferite e le competenze attribuite, violando così il principio costituzionale di solidarietà territoriale.
La Corte ha inoltre messo in luce l’inadeguatezza della clausola di invarianza finanziaria, che, troppo rigida, impediva una valutazione realistica e aggiornata dei costi. Questo aspetto, combinato con il rischio di ampliare anziché ridurre i divari regionali, rappresenta una delle principali preoccupazioni dei giudici costituzionali. Infine, è stata criticata la procedura di approvazione delle intese, strutturata in modo da escludere una partecipazione del Parlamento nel processo negoziale.
LA NECESSITA’ DEL REFERENDUM – La legge sull’autonomia differenziata, com’era concepita, è stata sostanzialmente rimodulata. La Corte Costituzionale ha imposto una maggiore inclusione del Parlamento nella definizione dei criteri fondamentali, che rappresenta un passo avanti verso una maggiore trasparenza. Questo consente ai cittadini di vigilare sulle decisioni del Governo, nonostante gli equilibri parlamentari e le solide maggioranze rendano difficile immaginare un totale ribaltamento della situazione.
Eppure, come osservato da esponenti come Luca Zaia e Matteo Salvini, la legge non è stata completamente bocciata. La Consulta ha ribadito che l’autonomia differenziata è compatibile con la Costituzione, richiamandosi agli articoli 116 e 117. Ciò significa che il progetto può andare avanti, ma dovrà essere attuato con maggiore attenzione al processo democratico.
Proprio come avrebbe sottolineato Saramago, con buona pace dei partiti, la pronuncia della Corte non rappresenta né una rivoluzione né un blocco totale. Si tratta di un risultato intermedio, che lascia aperta la strada al referendum, unico strumento capace di scongiurare potenziali rischi di natura sociale, economica e politica. Solo le urne potranno salvare l’Italia dalla secessione economica.