Chiunque abbia osservato le persecuzioni di Amsterdam dello scorso 7 novembre sarà rimasto immalinconito da tanta violenza. Correvano, piangevano e urlavano a squarciagola. Poi si fermavano, s’accasciavano e supplicavano pietà. Erano tifosi ebrei, ma non erano perseguitati solo per questo. La colpa che si intendeva attribuirgli era soprattutto la cittadinanza israeliana, che ancora, a Bibi piacendo, risulta essere una cosa diversa.
Non è morto nessuno e l’unico scompenso è interiore, esistenziale. Queste scene, hanno sottolineato in molti, ricordano i pogrom del secolo scorso, la persecuzione razziale e il clima di antisemitismo che incominciava a montare dalle viscere del nazionalsocialismo hitleriano. Il premier israeliano si è affrettato a definirla una “nuova Notte dei Cristalli”, facendo riferimento al pogrom nazista avvenuto in Austria tra il 9 e il 10 novembre 1938, in cui squadracce naziste in abiti civili assaltarono e distrussero 7.500 negozi ebraici, 267 sinagoghe e deportarono circa 30.000 ebrei maschi in campi di concetramento.
Tutto questo premesso, vale la pena di sollevare alcuni interrogativi. Primo fra tutti sulla natura antisemita dell’evento: sono o non sono atti di antisemitismo? Secondo, sulla legittimità dell’imputazione della responsabilità bellica ai civili: sono o non sono colpevoli quei tifosi per ciò che avviene a Gaza e in Libano oggi? Terzo, sulla continuità storica delle categorie del Novecento: gli israeliani di oggi sono davvero gli eredi etici degli ebrei di ieri?
L’ANTISEMITISMO D’ANTAN – Per rispondere alla prima domanda, bisogna dapprincipio intendersi su cosa è l’antisemitismo. L’antisemitismo d’antan consisteva nella discriminazione aprioristica degli ebrei (qui intesi come popolo, dato che Israele è nato solo nel 1948), fondata su una serie di teorie che si sono affermate nel corso della storia. Prima, all’epoca dei Romani, erano discriminati per le loro pratiche religiose e culturali distintive; con l’avvento del Cristianesimo furono accusati di deicidio, dal momento che i Vangeli attribuivano ad alcune autorità ebraiche un ruolo rilevante nella condanna e nella crocifissione di Gesù; dopo ancora, durante il Medioevo, furono accusati di uccidere bambini cristiani e di avvelenare pozzi durante la peste. Da ultimo, con l’avvento dell’Età contemporanea, si ebbe la proliferazione di teorie complottiste dalla rilevante diffusione: gli ebrei si erano organizzati per dominare il mondo (Protocollo dei Savi di Sion), e alcune famiglie ricche di banchieri cospiravano per l’accadimento di grandi disastri globali (principalmente la famiglia Rothschild).
L’ANTISEMITISMO ARABO E IL SIONISMO – Oggi a queste teorie complottiste si affiancano differenti forme di antisemitismo, di natura e origine decisamente più complesse. Un esempio valido è dato dall’antisemitismo arabo: agli arabi non importa nulla delle teorie del complotto, dei Rothschild e del deicidio, il loro odio verso gli ebrei è dovuto alla presenza israeliana in Medio Oriente. Infatti, con la costituzione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948, la regione è diventata decisamente più instabile. Una sequela di guerre si è verificata nel corso degli ultimi ottant’anni (Guerra del ’48-’49, Crisi di Suez del ’56, Guerra dei Sei giorni del ’67, Guerra del Kippur del ’73, Guerra del Libano del ’82, Prima Intifada del ’87, Seconda Intifada del 2000, Guerra del Libano del 2006, Operazione Piombo Fuso del 2008, Operazione Pilastro di Difesa del 2012, Operazione Margine Protettivo del 2014, Operazione Guardiano delle Mura del 2021, Operazione Spade di Ferro del 2023, Guerra del Libano del 2024), imponendo alla popolazione araba un forte senso di incertezza.
Gli arabi non operano una distinzione tra sionisti ed ebrei, per loro questi due concetti sono oramai quasi interamente sovrapponibili: Israele è per loro uno stato antidemocratico, esclusivamente ebraico, razzista, pronto a destabilizzare i fragili equilibri della regione.
A rinforzare tale percezione c’è l’operato del governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu. In politica interna le riforme messe sul tavolo hanno portato da un lato ad un incremento dell’estremismo e della discriminazione razziale nei confronti degli arabi israeliani, e dall’altro alla diminuzione dell’autonomia della magistratura. Nell 2018 la Knesset (il parlamento di Israele) ha approvato una legge fondamentale (una sorta di atto normativo di rango simil-costituzionale) che faceva di Israele lo Stato del popolo ebraico, in cui solo gli ebrei avrebbero avuto diritto all’autodeterminazione, e relegava la lingua araba (prima di allora lingua ufficiale insieme all’ebraico) a lingua di “status speciale”. Qualche anno più tardi, nel gennaio 2023, è stata approvata una parte della riforma della giustizia proposta dal Likud (il partito di governo). Il risultato è stato di sommare al clima di apartheid una cospicua limitazione del potere dei giudici, riducendo il livello di democraticità dello Stato.
In politica estera, invece, l’operato del Governo Netanyahu appartiene alle cronache quotidiane ed è ampiamente noto. Oltre 42.000 morti a Gaza, alcune migliaia in Libano ed un’emergenza umanitaria senza precedenti in entrambi i paesi. Condotte condannate dall’ONU e da larga parte dei paesi del mondo, e per le quali Netanyahu è incriminato davanti alla Corte penale internazionale.
Sin dall’inizio dell’Operazione Spade di Ferro a Gaza, il premier israeliano ha più volte argomentato che ogni tentativo di impedire ad Israele di portare a compimento la sua operazione equivale ad una forma di antisemitismo. L’obiettivo sionista di garantire la sicurezza dello Stato di Israele e la sua espansione territoriale è stato ripetutamente sovrapposto alla necessità di salvaguardia del popolo ebraico. Proprio come nella percezione diffusa nel popolo arabo, anche nella retorica di Benjamin Netanyahu antisionismo e antisemitismo combaciano perfettamente.
IL NUOVO ANTISEMITISMO – Quello a cui abbiamo assistito ad Amsterdam non aveva come fondamento i motivi dell’antisemitismo d’antan. Nessuno degli aggressori dei tifosi del Maccabi Tel aviv accusava gli israeliani di aver ucciso Gesù, di aver diffuso la peste, di aver sviluppato un piano per governare il mondo o di congiurare per le principali catastrofi mondiali. Al contrario, ce l’avevano con gli israeliani per ciò che lo Stato di Israele sta facendo a Gaza e in Libano. E nella violenza del linguaggio e nelle vessazioni morali operavano quella sovrapposizione che sono soliti compiere tanto gli arabi quanto gli israeliani: essere ebrei significa essere sionisti.
Perciò, per tentare di dare una risposta al primo interrogativo, la radice antisemita delle violenze di Amsterdam potrebbe anche non essere discutibile, ma ciò che deve essere messo in dubbio è l’identicità del concetto di antisemitismo rispetto al passato. Oggi emerge e si fa sempre più vivo un rinnovato antisemitismo, in cui l’ebreo appare colpevole di sostenere politicamente, economicamente e moralmente lo Stato di Israele, entità statuale macchiatasi indelebilmente di crimini contro l’umanità e di violazioni patenti del diritto internazionale ai danni di civili indifesi.
IL POPOLO, LA GUERRA E L’INDIVIDUO – Veniamo dunque alla seconda domanda. È giusto prendersela con i civili israeliani per quello che il Governo Netanyahu sta facendo a Gaza e in Libano?
Questa è una faccenda intricata e di difficile risoluzione. Non fosse altro che per via della differente qualificazione del popolo nel diritto degli stati e nel diritto internazionale. Secondo larga parte del diritto statuale del mondo il popolo ha un certo ruolo ed è soggetto di diritto. Si pensi alla costituzione italiana, tanto per fare un esempio vicino al lettore, che attribuisce al popolo la sovranità e il diritto di esercitarla. In maniera molto più indeterminata, invece, il diritto internazionale considera il popolo alcune volte un attore internazionale (si pensi al diritto all’autodeterminazione), e altre volte solamente un soggetto da proteggere (si pensi al diritto internazionale umanitario).
Difficile sarebbe, anche nella più corretta e competitiva delle democrazie, individuare un popolo che sia uno. Joseph Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia metteva acutamente in guardia su questa impossibilità: per individuare il popolo come soggetto unitario bisognerebbe individuare un unico concetto di bene, un unico concetto di popolo e di interesse collettivo. Conseguenza: il popolo esiste solo come insieme di soggettività che sceglie un metodo di organizzazione.
Seguendo questa linea di interpretazione, viene fuori una difficoltà concreta di soggettivizzazione unitaria del popolo e quindi di imputazione di una sorta di responsabilità elettorale. Si potrebbe tentare di imputare una responsabilità aprioristica a quella maggioranza che elegge un governo, ma la segretezza del voto lo rende impossibile sin dal principio. Oppure si potrebbe provare a considerare colpevole un popolo che non reagisce all’operato ingiusto di un governo in carica con manifestazioni di piazza e cortei. Eppure esigere un’opposizione attiva da parte del cittadino equivarrebbe ad una disciplina dei corpi e delle coscienze troppo pervasiva per non essere considerata illiberale. Dalla massima degli “italiani brava gente” sino all’amnistia morale nei confronti dei civili tedeschi nel secondo dopoguerra, il diritto a vivere una vita estranea alla partecipazione politica attiva è stato nella storia contemporanea dell’Occidente un pilastro della libertà personale.
LA NECESSARIA (IR)RESPONSABILITA’ DEI CIVILI – Resta poi da considerare una conseguenza non secondaria al tentativo di riconoscere una responsabilità dei civili in ordine all’operato dei loro governi. In guerra tutti i soggetti responsabili degli attacchi diventano obiettivi legittimi: ciò vorrebbe dire destrutturare e calpestare le Convenzioni di Ginevra, i Protocolli aggiuntivi e lo Statuto di Roma. I civili diverrebbero un legittimo obiettivo dei bombardamenti, in quanto responsabili di non essersi opposti alle azioni dei loro governi.
Quindi, per abbozzare una risposta anche alla seconda domanda, potremmo affermare che tremende e orribili nefandezze discenderebbero da una responsabilità giuridica e politica dei popoli per l’operato dei governi. Anche se sionisti, quei tifosi israeliani dovevano essere lasciati in pace, perché protetti dalla necessaria irresponsabilità dei civili.
EREDI E ORFANI, LE CATEGORIE DEL NOVECENTO TRA I CONTEMPORANEI – Ci avviamo verso la conclusione con il terzo interrogativo: gli israeliani di oggi sono davvero gli eredi degli ebrei di ieri? Anche qui la risposta non è né facile né scontata. Di certo si avverte una tendenza israeliana all’avvicinamento semantico tra gli eventi che li vedono come vittime di attacchi violenti e gli eventi antisemiti del Novecento. L’esternazione in risposta ai fatti di Amsterdam di Bibi Netanyahu, infatti, non è un unicum nella sua retorica politica: ogni volta che gli israeliani subiscono un attacco, c’è sempre un parallelo storico con la persecuzione degli ebrei. Così parole come “Olocausto”, “pogrom”, “Notte dei lunghi coltelli” e “Notte dei cristalli” subiscono un utilizzo perpetuo, diuturno che le usura e le svuota del loro significato originario. Private delle loro turpe eccezionalità storica, queste parole acquisiscono una illusoria ripetitività, provocando nei popoli del mondo una certa forma di assuefazione al loro utilizzo e al loro apparente accadimento.
Volendo poi analizzare la faccenda con occhio critico, la questione sembra ancora più complessa. Ciò che permette di fare degli ebrei la vittime del secolo scorso è decisamente il loro ruolo di perseguitati. Tali persecuzioni rappresentavano la più truce ed evidente violazione dei diritti fondamentali degli uomini, materia che assunse forma compiuta solo a posteriori con la Dichiarazione universale dei diritti umani. Gli ebrei del Novecento, immolandosi sull’altare della brutalità anti-umanitarista e razzista, permettevano al mondo di codificare i diritti irriducibili dell’uomo. Da allora difendere gli ebrei ha significato difendere quei diritti.
Oggi la situazione assume sfumature diverse. Gli eredi genealogici di quegli ebrei del Novecento fanno di tutto per unire in un sol concetto il sionismo e l’ebraismo, quasi come se la salvaguardia del loro Stato-nazione in Palestina sia l’orizzonte escatologico di tutto il popolo ebraico del mondo. Difendere gli ebrei oggi, se questa narrazione dovesse affermarsi come egemone, significherebbe difendere Israele e non i diritti universali di tutti gli uomini del mondo.
Sulla base di questo ragionamento, vale dunque la pena di separare idea e materia. Gli eredi genealogici degli individui del Novecento non sono necessariamente anche i loro eredi morali, politici e giuridici. Le idee politiche, attraverso la loro attualizzazione storica, rimangono dei concetti a cui ispirare le azioni materiali, senza diritto di esclusiva o di eredità.
L’ETERNO RITORNO DEI DIVERSI – In conclusione, le violenze di Amsterdam, sebbene non siano nemmeno lontanamente accomunabili alla Notte dei cristalli, hanno rappresentato il turpe, ferino exploit del nuovo antisemitismo dei nostri tempi. Tale antisemitismo ha la sua radice tanto nelle mire espansionistiche degli arabi nella regione mediorientale, quanto nella strategia criminale dello Stato di Israele. E l’Occidente non ha più la possibilità di disinteressarsene: luogo e tempistiche dell’accaduto ne segnalano l’urgenza.
La storia si manifesta come divenire eternamente ripetitivo, in cui l’eterno ritorno delle idee vede un’esperienza incarnata invertita. Combattere l’antisemitismo ieri significava combattere l’idea razzista secondo cui un individuo potesse essere discriminato in virtù della sua etnia o della sua religione. Lungi dall’essere la mera difesa dei perseguitati, la lotta antirazzista dell’Europa della Seconda guerra mondiale era lotta in difesa dell’eternità di un’idea di tolleranza e convivenza pacifica.
Oggi chiunque voglia dare corpo a questa lotta non può non essere tanto dalla parte dei civili israeliani di Amsterdam, quanto da quella dei civili palestinesi e libanesi del Medio Oriente.