Il conflitto israelo-palestinese, con la sua attuale estensione nel più ampio scenario mediorientale, coinvolge oggi direttamente o indirettamente altri attori regionali. La guerra si amplia e si restringe in pochi giorni, e l’evoluzione sembra essere incerta e impronosticabile.
Davanti a tutto ciò, l’opinione pubblica occidentale sembra aver perso qualunque forza di risposta. Questa diminuzione della reazione emotiva e politica è il segno di un lungo processo di assuefazione all’orrore. L’Occidente si sta progressivamente abituando alla violenza che si consuma ai margini del proprio orizzonte.
Proprio per questo, diventa urgente tornare a riflettere su che cosa accade in Palestina, su come agisce Israele, e soprattutto su quale debba essere la posizione dell’Europa. Al di là delle retoriche di schieramento, al di là delle letture storiche parziali, resta una domanda fondamentale: quali sono i principi oggi su cui fondare una risposta etica e politica? È possibile nel mezzo del disordine globale affidarsi ancora ai diritti umani come bussola?
ISRAELE, HANNAH ARENDT E IL RUOLO DEL PROFUGO – Il primo punto di osservazione potrebbe essere dato dallo Stato più attivo di questa guerra: Israele. Per comprendere il ruolo che sta giocando nel conflitto in corso, è utile rileggere alcune riflessioni di Hannah Arendt, filosofa ebrea che più di ogni altra ha saputo analizzare cosa accade quando i principi che tengono insieme una civiltà vengono progressivamente svuotati. Arendt aveva compreso, già all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, che la violenza moderna non si manifesta sempre in forme spettacolari o eccezionali, ma spesso nella sua banalità. Una sorta di abitudine che non interroga più il proprio fondamento morale.
Israele sembra aver abbandonato del tutto quei valori su cui si fonda l’ordine internazionale nato dopo il 1945 (la tutela dei civili nei contesti bellici, il rifiuto delle guerre preventive o la condanna di armi e pratiche indiscriminate). In nome della sicurezza ha costruito una prassi militare che non risponde più a criteri giuridici condivisi: risponde solo a una logica di forza e dominio territoriale. È difficile in questo contesto continuare a considerare Israele parte di un sistema valoriale che si definisce “occidentale”, se con questo termine si intende un ordine basato sul diritto e sul rispetto delle regole comuni.
Arendt ci aiuta a cogliere un altro elemento fondamentale: il modo in cui un sistema politico può trasformare intere popolazioni in “non-persone”. Il rifugiato (qui intendiamolo anche nell’ampia accezione di rifugiato interno) è la figura emblematica di chi ha perso i diritti civili, sino alla negazione del diritto di avere diritti. Gaza è oggi da questo punto di vista un laboratorio estremo di disumanizzazione. La popolazione palestinese è trattata come un corpo ingombrante e privo di umanità.
Con le azioni dello Stato di Israele siamo ben oltre un male banale. Queste azioni producono il disfacimento della civiltà, rompendo i legami minimi della convivenza. Per questo, l’Europa non può più limitarsi a osservare. Perché ogni volta che si tollera la distruzione di un popolo senza reagire, si contribuisce a erodere le basi stesse di quell’ordine giuridico e umano in cui continuiamo a riconoscerci.
GAZA, GIORGIO AGAMBEN E LA SACERTA’ – Spostiamo adesso la nostra prospettiva verso il principale teatro di guerra dell’ultimo anno: Gaza. Una delle chiavi di lettura più adeguate per comprendere la condizione dei civili coinvolti nei conflitti mediorientali (palestinesi, iraniani, yemeniti, libanesi) è offerta dal filosofo Giorgio Agamben attraverso la figura dell’Homo Sacer.
Nell’Antica Roma, homo sacer era colui che poteva essere ucciso impunemente ma non poteva essere sacrificato in un rito religioso. Era una vita che non aveva più valore né nel diritto né nel sacro: una vita nuda, insomma, ridotta alla sola sopravvivenza biologica ed esclusa da ogni forma di protezione.
Questa figura ritorna con vividezza nei conflitti che devastano il Medio Oriente. I civili palestinesi, gli yemeniti, gli iraniani e i libanesi colpiti dai raid, dai bombardamenti e dalle rappresaglie incarnano sempre più questa condizione. Sono bersagli secondari o danni collaterali. La loro vita può essere annullata, senza che ciò sia oggetto di scandalo. È vita spogliata di ogni dignità pubblica.
La domanda, però, riguarda anche il ruolo delle leadership locali. Che valore ha la vita di un palestinese per Hamas? Che valore ha quella di un libanese per Hezbollah? E quella di uno yemenita per gli Houthi o di un iraniano per il regime di Teheran? In molti casi, vengono anche utilizzati come strumenti politici e tattici. Diventano numeri in una contabilità del martirio. Da parte di queste forze la vita civile è spesso trattata come sacrificabile, data la sua natura funzionale al conseguimento di una causa ritenuta più importante.
Il pensiero di Agamben ci offre allora una chiave chiara: queste sono vite ridotte all’essere uccidibili. Nessuno li riconosce come parte piena di una comunità politica. Non lo fa Israele, che li bombarda sistematicamente in nome della propria sicurezza. Non lo fanno i gruppi armati locali, che li espongono consapevolmente al rischio. E non lo fa nemmeno la comunità internazionale, che osserva senza intervenire in modo efficace. È così che si crea una zona grigia, che non è né dentro né fuori dalla legge.
Riconoscere questa condizione è il punto di partenza per affermare un principio radicale: nessuna ragione geopolitica, nessuna ideologia, nessun interesse strategico può giustificare la disumanizzazione dell’altro. E proprio per questo, i diritti umani rimangono il solo linguaggio valido per giudicare ciò che accade.
I DIRITTI UMANI, JUDITH BUTLER E L’EPOPEA DEL RICONOSCIMENTO – L’ultimo passaggio riguarda proprio il ruolo dei diritti umani nel conflitto. La migliore prospettiva per affrontare il tema ci viene fornita da Judith Butler, una delle voci più attente alla relazione tra identità, potere e vulnerabilità. Per Butler, esistere politicamente significa prima di tutto essere riconosciuti. Riconoscimento come presupposto dell’esistenza. Esistere è essere visti e considerati parte di una comunità di senso. Quando una vita non viene riconosciuta come degna di lutto, come capace di suscitare empatia o reazione morale, quella vita è già stata esclusa dalla cittadinanza del mondo.
Questo riguarda tutti i civili coinvolti in conflitti che oggi vengono raccontati e gestiti secondo logiche geopolitiche, e mai affrontati partendo dal valore incondizionato della persona. L’assenza di un riconoscimento pieno non dipende soltanto dalla mancanza di uno Stato-nazione alle spalle. Anzi, ridurre la questione al problema del “diritto a uno Stato” rischia di semplificare il discorso e di fare un cattivo servizio proprio a quella tradizione internazionalista che dal secondo dopoguerra in poi ha provato a costruire un orizzonte comune dei diritti umani.
Continuare oggi a pensare in termini di stati-nazione, come se fossimo ancora nell’Ottocento, significa smarrire il punto. Non è la sovranità territoriale che fonda i diritti; è il contrario: sono i diritti che devono limitare la sovranità, impedendo che uno Stato (qualunque esso sia!) possa violare i corpi e la dignità delle persone in nome di un progetto politico. Questo vale per Israele, per l’Iran, per Hamas e per l’Occidente stesso. Ed è proprio questo il nodo centrale: il diritto dell’individuo non può dipendere dalla sua appartenenza nazionale, religiosa o etnica.
In assenza di questo retroterra comune, il riconoscimento politico diventa una questione soggetta agli interessi di turno. Si riconoscono alcuni popoli e se ne ignorano altri. Si sostiene la resistenza in certi contesti e la si condanna altrove (si veda la condizione della resistenza ucraina, per nulla diversa da quella gazawi). Questo avviene perché il criterio non è più etico, è strategico. E così si finisce per cancellare il principio base dell’universalismo illuminista e post-illuminista, secondo cui ogni essere umano in quanto tale è titolare di diritti che precedono ogni configurazione politica.
Oggi manca esattamente questo: il riconoscimento dell’uomo come centro di imputazione fondamentale dei diritti. Gaza e tanti altri luoghi dimenticati ci mettono di fronte a questa assenza. Ed è da qui che l’Europa deve ripartire, se vuole evitare che l’internazionalismo dei diritti degeneri in una retorica selettiva utile solo a giustificare alleanze e guerre.