“Il pensiero di Hannah Arendt” è un approfondimento monografico che sarà pubblicato a puntate. In questo secondo articolo ci occupiamo della tecnica e del suo rapporto con l’uomo.
La tecnica può essere considerata un elemento caratterizzante della civiltà moderna, che con l’ausilio del progresso scientifico si propone di costruire un mondo dominato dalla sola ragione. È pur vero che esso è connaturata all’uomo ma, come afferma Spengler: «il problema della tecnica e dei suoi rapporti con la civiltà e la storia emerge soltanto nel XIX secolo»(1). Essa diventa nella modernità un fenomeno dalle dimensioni ampie che coinvolge tutti i settori della vita dell’uomo.
Il Novecento è il secolo della tecnocrazia, in cui l’elemento tecnico assume le caratteristiche di un ordinamento dal quale ci sembra impossibile prescindere. Il progresso si traduce nel criterio dell’efficienza per il quale:
La razionalità si manifesta nella organizzazione politica, nel funzionamento dell’economia, nell’articolazione dei mezzi di produzione, cioè nel campo della tecnica. Essa si riassume nel principio del maximin: ottenere in tutti i campi il miglior risultato con il minimo dispendio di energia(2).
La tecnica non è più identificabile esclusivamente con «la tattica della vita intera»(3) intesa in senso naturale, ovvero come esonero dell’uomo dalla fatica e come tentativo di lotta contro la natura per la necessità della sopravvivenza. Essa ha perso i connotati che la identificavano con il concetto di ‘mezzo’ utile al raggiungimento di uno scopo. La tecnica ha assunto proporzioni vastissime ed è ricercata per se stessa, non si identifica i con il mezzo, ma è diventata il fine, tanto da invadere la nostra esistenza ed ha invaso la nostra esistenza: «assistiamo a quel capovolgimento per cui il soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di “mero” strumento, dispone della natura come suo sfondo e dell’uomo come suo funzionario»4. Questo capovolgimento ha portato delle conseguenze rilevanti, mutando i rapporti dell’uomo con il mondo, il pensiero, l’azione e la conoscenza.
IL MACCHINISMO – Secondo Ortega y Gasset il rapporto tra scienziato e scienza, quindi tra soggetto e prodotto, si è capovolto: non è più lo scienziato che fabbrica la scienza, ma è quest’ultima che fa lo scienziato, diventando in tal modo tecnoscienza anonima che richiude il soggetto nello specialismo.
All’interno degli orientamenti fondamentali della cultura del Novecento il pensiero della Arendt occupa un posto particolare in relazione alla sua originalità. La filosofa presenta un’interpretazione del mondo contemporaneo dominato dal tecnicismo, che è in stretta relazione con l’idea del totalitarismo, inteso come patologia del secolo scorso. Tra le sue riflessioni occupa un’attenzione particolare quella relativa ad un passaggio cruciale, ovvero quello relativo al passaggio dall’attività lavorativa, e quindi umana per eccellenza, fino al macchinismo industriale. L’utilizzazione della macchina nel processo di produzione rappresenta per la Arendt un momento indicativo ai fini della metamorfosi del soggetto.
Il macchinismo industriale modifica l’habitat nel quale l’uomo si trova ad operare, ma soprattutto ridefinisce in termini radicali il rapporto tra mezzi e fini che sottende alla vita pratica dell’uomo:
Gli arnesi e gli strumenti che possono agevolare lo sforzo del lavoro non sono mai un prodotto del lavoro ma dell’opera; non appartengono al processo del consumo ma sono parte del mondo degli oggetti d’uso. La loro funzione, per quanto grande sia, nel lavoro di ogni data civiltà, non può mai raggiungere l’importanza fondamentale degli arnesi per ogni genere(5).
Nella società pre-industriale dominata da strumenti e arnesi, il rapporto uomo-mondo, a parere della Arendt, è relativamente armonico con i ritmi naturali del corpo nell’attività lavorativa. Nella contemporanea società delle macchine, invece, si assiste alla rottura progressiva di quell’unità armonica tra ritmo naturale e ritmo della macchina. Le macchine non rappresentano più una continuazione più sofisticata degli arnesi della società pre-industriale, poiché sono in grado di sostituire il lavoro prodotto dal corpo umano, all’interno di questa dimensione il mondo tecnicizzato rappresenta una evidente rottura della continuità, dove «a paragone dell’azione umana, così vana e fragile, la fabbricazione erige un mondo durevole e solidissimo»(6).
LA MACCHINA E L’ARNESE – Quando si tenta un’interpretazione del mondo delle macchine, gli strumenti concettuali della realtà pre-industriale a nostra disposizione, non possono più essere applicati, perché il mondo tecnologico, sostiene la Arendt, non può essere considerato come un gigantesco allargamento o continuazione dell’antica società delle arti e mestieri, in quanto le macchine esigono che l’uomo si adatti al loro processo meccanico e che le serva, mentre gli arnesi conservano lo statuto di servire le mani. Le macchine diventano degli strumenti di scissione non solo nel rapporto tra l’uomo e la natura, ma anche tra gli uomini stessi all’interno del processo lavorativo. Creando un mondo artificiale per garantire la produzione, l’uomo si pone in una condizione ‘alienata’ rispetto alla propria natura, dato che le macchine esercitano un dominio tale sul loro creatore, tale da mettere l’uomo nella condizione di dipendenza da esse.
La questione del macchinismo assume, per la Arendt, un orientamento più profondo, dove bisogna chiedersi non tanto se siamo schiavi o padroni delle macchine, quanto se esse hanno la funzione di servire il mondo o se mediante il loro servizio abbiamo cominciato un’opera di distruzione della natura. Ciò che preme analizzare è la riflessione sul termine ‘natura’, la quale è tutto quello che si verifica spontaneamente senza l’intervento dell’uomo: «sono naturali quelle cose che non son “fatte” ma si sviluppano autonomamente in ciò che diventano»(7). L’autonomia è la caratteristica fondamentale di tutti gli esseri biologici, la quale sul piano dell’azione umana diviene intenzionalità o volontà di progettazione(8).
Nel progetto moderno rimane ancora chiara la distinzione tra il mondo artificiale costruito dall’uomo da un lato, e la natura dall’altro, nonostante l’uomo trasformi la natura secondo i propri disegni. Il mondo contemporaneo ha smarrito questa distinzione tra soggetto e natura o perlomeno, la linea di demarcazione è diventata sempre più astratta.
All’interno della riflessione arendtiana la tecnica è contraria alla natura e all’uomo, perché produce un universo di cose che celebrano lo pseudo paradiso del consumo che si sostituisce all’uso, inaugurando un’epoca dominata dall’homo faber, la cui caratteristica è di condurre la propria azione facendo violenza alla natura, ai fini della produzione indiscriminata di cose. In questo orizzonte la Arendt individua una grossa minaccia per il pensiero, ovvero per l’attività contemplativa, a favore della sfera della prassi orientata verso l’utilità, categoria per eccellenza nel mondo contemporaneo.
IL MECCANICISMO – La tecnica trova il suo obiettivo nel processo di liberazione dell’uomo dalla schiavitù del lavoro, proponendosi di riprodurre artificialmente anche i fenomeni della natura, i quali sono di per sé automatici. L’homo faber inaugura l’epoca del meccanicismo, nella quale il lavoro si risolve in se stesso e si autoconsuma, non avendo fini esterni che si risolvono nella permanenza. Nel ‘fare’ invece, la cosa fabbricata è un prodotto terminale del processo di produzione, un mezzo per produrre questo fine. Segue una distinzione tra il lavoro inteso nel mondo classico ed il lavoro nella prospettiva moderna. Nella classicità domina l’idea del movimento ciclico del lavoro, al pari della concezione del tempo, in cui compare la categoria della staticità: il tutto è orientato sulla base della liberazione dalla necessità dove ogni movimento ritorna su se stesso. Il lavoro così inteso non produce nessun progresso, né tanto meno è cumulativo. Il sentimento che domina è quello secondo il quale nihil sub sole novi, ovvero il mondo non cambia perché determinate condizioni non sono superabili. L’uomo moderno mette in discussione l’idea del ‘cerchio’, concependo la natura ed il tempo in termini progressivi, mentre lo spirito moderno è di tipo faustiano, diabolico, nella misura in cui non lascia tranquilla la natura e, mediante la tecnica, tende al suo sfruttamento.
L’obiettivo dell’uomo moderno è di asservire la natura per umanizzarla, ai fini di inserirla nei suoi disegni di crescita e accumulazione. Il mondo contemporaneo appare alla Arendt non solo desacralizzato dalla tecnoscienza, ma, soprattutto, espropriato del gioco di relazioni tra mezzi e fini:
Anche oggi tutti i veri scienziati converranno che l’applicabilità tecnica di ciò che stanno facendo è un mero prodotto collaterale del loro sforzo.
Il pieno significato di questo capovolgimento di mezzi e fini rimase latente finché predominò la visione meccanicistica del mondo, la visione del mondo dell’homo faber per eccellenza(9). Nell’applicazione tecnica la realizzazione dell’agire umano, che non è sempre a favore del mondo, si rivela spesso come azione ‘contro il mondo’. La natura viene sfruttata a favore dell’accumulazione di ricchezze, risolvendosi nell’orizzonte del continuo mutamento che contribuisce a minare la stabilità del mondo.
La Arendt individua nella razionalità tecnopoietica una contrappostone tra la vita contemplativa, che nella concezione classica si trovava all’apice della scala gerarchica delle attività umane, e la praxis, ovvero la sfera del fare tanto celebrata dalla modernità. Essa afferma il valore del mutamento in contrapposizione all’esigenza dell’uomo di mantenere, entro la dimensione del limite, una certa stabilità nel mondo. Il mutamento continuo ed incessante che la tecnica contemporanea ha portato provoca una dicotomia pericolosa tra pensiero ed azione, all’interno del quale l’uomo perde i suoi punti fermi ed è costretto a guardarsi continuamente alla spalle, nel timore che le conseguenze delle sue azioni possano volgersi contro la dimensione autenticamente umana.
[1] Spengler O., L’uomo e la tecnica, trad. it. Guanda Editore, Parma, 1992, p. 27.
[2] Latouche S., La Megamacchina, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 25.
[3] Spengler O., L’uomo e la tecnica, cit., p. 32.
[4] Galimberti U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 37.
[5] Arendt H., Vita activa, cit., p. 127.
[6] Arendt H., Tra passato e futuro, trad. it. A cura di A. Dal Lago, Garzanti, Milano, 1999, p. 92.
[7] Ivi, p. 157.
[8] La Arendt insiste molto sul carattere di spontaneità che accomuna gli esseri naturali, i quali esistono indipendentemente dall’intervento dell’azione umana. Ciò contiene la distinzione tra i prodotti della natura e i prodotti della mano artificiale. Questi ultimi sono ‘opera’ della fabbricazione e si sviluppano gradualmente. Per la Arendt questa distinzione tra il soggetto che fabbrica e l’opera che risulta dal soggetto di fabbricazione, in natura non esiste. Nei processi naturali l’esistenza delle cose, ad esempio l’albero, non è mai separato dal processo attraverso cui la mente naturale viene ad essere. Il ‘seme’, osserva la Arendt, contiene in sé già l’albero.
[9] Arendt H., Vita activa, cit., pp. 318-319.