Siamo soliti affermare che nel mondo ci sono moltissime guerre di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza. Conflitti, tentativi di pulizia etnica, soprusi e abusi di governi autoritari scorrono spesso a margine delle pagine dei nostri quotidiani. E, in sintesi estrema, questo è senz’altro corrispondente al vero.
Tuttavia, ci sono alcuni conflitti che più degli altri contribuiscono a rendere più grave questa nostra noncuranza. E le ragioni di tale gravità non sono solo da ricercare nei principi umanitari e di tutela dei diritti civili delle popolazioni soggette ai bombardamenti, che pur sono aspetti fondamentali per collocarsi all’interno del divenire storico in maniera consapevole e attiva. Sono da ritrovare piuttosto nell’importanza che tali conflitti hanno per il luogo in cui viviamo (approvvigionamento energetico, posizionamento geopolitico, uso degli eserciti, controllo dei colli di bottiglia per i traffici commerciali) e per l’analisi storica della verità. Uno dei conflitti che per queste ragioni non dovremmo assolutamente ignorare è proprio quello consumatosi negli ultimi trent’anni in Nagorno-Karabakh.
Proprio lungo questa linea d’analisi si staglia l’elemento che più di tutti diventa oggetto del nostro interesse: la propaganda nei territori di guerra. Qual è il giusto metodo per comprendere le vere ragioni del conflitto? Come si fa a capire se un’informazione è vera o falsa? E secondo quali parametri si profferisce la propria partigianeria per l’una o per l’altra parte? Tutte queste domande sono figlie di un macro-concetto, la verità nel conflitto, che secondo l’adagio di Carl von Clausewitz è sempre la prima vittima degli scontri.
GEOGRAFIA DEL CONFLITTO – Veniamo agli estremi della questione. Il Nagorno-Karabakh si trova nel cuore del Caucaso, ed è un punto nevralgico delle tensioni post-sovietiche. I protagonisti del conflitto sono l’Armenia, il popolo del Nagorno-Karabakh (o per gli armeni Artsakh) e l’Azerbaijan. Questi tre attori si sono contesi proprio il governo del territorio del Nagorno-Karabakh, che secondo diritto è parte del territorio azerbaigiano, ma secondo cultura è popolato (almeno sino al 2020) da una schiacciante maggioranza armena. Se volessimo riassumere la vicenda mutuando istituti del diritto internazionale, potremmo anche rappresentarla come una contrapposizione tra la rivendicazione armena del diritto all’autodeterminazione dei popoli – figlio della dottrina wilsoniana morto in fasce – e la rivendicazione azerbaigiana del diritto alla sovranità e alla continuità territoriale.
STORIOGRAFIA IN BREVE – Formalmente si fa iniziare il conflitto negli anni ’90, ma è bene che il lettore sappia che la scaturigine di questa guerra è da ritrovare nei primi decenni del Novecento. Troppo spazio servirebbe qui per riprendere integralmente la fenomenologia del conflitto armeno-azerbaigiano, quindi delegheremo prudentemente questo compito agli esperti che sin da questa settimana inizieranno a fornirci delle descrizioni approfondite sul nostro canale Youtube e ad una mini-serie podcast già pubblicata su Spotify a cura della nostra redazione. Per ragioni di spazio siamo dunque tenuti a secondare la forma comune, e ad iniziare ad osservare il conflitto proprio dagli anni Novanta, quando la dissoluzione dell’URSS provocò l’esplosione delle ostilità.
Dopo il primo vero e proprio confronto armato tra armeni e azerbaigiani, noto anche come Prima guerra del Nagorno-Karabakh, il territorio fu sottoposto integralmente al dominio armeno, includendo anche taluni distretti azerbaigiani che permettevano il collegamento del Nagorno-Karabakh all’Armenia. Il primo conflitto si concluse nel 1994 con una pace precaria, molto più vicina ad un armistizio flebile che ad una pace vera e propria. Dal 1994 al 2020 si ebbe una riduzione delle ostilità e una prosecuzione del conflitto ad un’intensità minore: alcuni analisti hanno persino parlato di “conflitto congelato”, ma non ci pare opportuno adoperare questo lemma, dal momento che mal si addice ad una situazione di conflitto in corso, anche se a potenza ridotta.
Nel 2016 l’Azerbaijan, ormai cospicuamente riarmatosi, sferrò un attacco rapido (noto come Guerra dei quattro giorni) ad alcuni distretti sottoposti al controllo armeno, riconquistandoli con successo. Tale breve riconquista costituì solo il prologo del più ampio conflitto che sovente si fa giacere sotto l’insegna di Seconda guerra del Nagorno-Karabakh. Infatti, nel 2020 la ripresa delle ostilità ha riportato il Nagorno-Karabakh sotto il controllo azerbaigiano. Tre anni più tardi, con un’operazione definita dal governo azerbaigiano come “antiterroristica”, si è scatenata la Terza guerra del Nagorno-Karabakh, provocando l’esodo della popolazione armena ancora residente nel territorio (circa centomila persone). Il 1° gennaio 2024 la Repubblica indipendente del Nagorno-Karabakh è stata dissolta per decreto del suo stesso presidente.
COMUNICAZIONE CLASSICA E GUERRA – Un conflitto che è durato dagli anni ’90 al 2024 ha una peculiarità che senz’altro non può essere ignorata: ha vissuto l’intera metamorfosi della comunicazione mediatica, dall’egemonia della televisione a quella dei social network. E questo non è affare da poco, perché tira in ballo il complesso sistema di trasmissione e verificazione delle informazioni durante il conflitto.
Difatti, mentre gli scontri del primo conflitto erano osservati prevalentemente attraverso i canali mediatici tradizionali come la stampa e la televisione, il secondo e il terzo hanno attraversato le nuove frontiere digitali, vedendo i social network trasformarsi in armi potenti di propaganda e disinformazione.
La comunicazione classica aveva delle caratteristiche e degli effetti ben precisi. Giornali e televisioni furono adoperati per trasmettere le micro-narrazioni partigiane di entrambe le parti, contribuendo a delineare dei microcosmi di senso. Secondo una ben consolidata teoria della comunicazione, l’effetto che si genera attraverso la manipolazione egemonica degli strumenti mediatici è la costituzione di una vera e propria “cornice” di significato, in cui la narrazione prende forma e acquisisce senso. E questo è ciò che avvenne negli ultimi anni del XX secolo in Nagorno-Karabakh. Se poi si aggiunge a ciò il numero chiuso di comunicatori (il governo e le agenzie governative), il manicheismo mediatico, ovvero la divisione del mondo in buoni e cattivi, non poteva che essere il corollario di una forma di comunicazione bipolare e apodittica.
INTERNET, TELEGRAM E IL DECENTRAMENTO – L’avvento di internet, dei social network e degli strumenti di messaggistica istantanea hanno sparigliato quest’ultimo aspetto. Tutti possono condividere immagini, foto e narrazioni del conflitto, contribuendo in maniera orizzontale alla determinazione di un certo tipo di racconto che oggi può definirsi a geometria variabile o relativistica.
L’anonimato e la facilità con cui contenuti emotivamente rilevanti (immagini di atrocità, vittorie sul campo, fame e miseria dei civili) potevano essere condivisi hanno contribuito ad una destrutturazione dell’autorità dell’informazione ufficiale. Destituiti dei loro blasoni d’un tempo, gli organi d’informazione classici hanno concorso con singoli operatori alla descrizione della verità della guerra, con il risultato di generare un’elevatissima incertezza nella popolazione. A chi credere, alla televisione o al civile che riprende sul campo?
Da ultimo, va considerato che l’informazione decentrata e relativizzata coinvolge direttamente l’individuo, ponendolo nella condizione di dover distinguere da sé le informazioni vere da quelle false. Così il rischio di incorrere nelle distorsioni sistemiche del ragionamento (i cosiddetti bias cognitivi) è davvero elevato. Chiunque, ad esempio, analizzi il conflitto con un proprio presupposto culturale, emotivo o economico – ed è affare che coinvolge tutti, nessuno escluso – è tendente a considerare come veritiere le informazioni che confermano tali presupposti (confirmation bias). E il sistema di verificazione delle informazioni si trasforma in una sorta circolo vizioso capace di autoprodurre la propria convinzione.
L’INFORMAZIONE DELLA GUERRA E LA GUERRA DELL’INFORMAZIONE – Da qui, il ruolo della propaganda nel conflitto in Nagorno-Karabakh non può essere considerato marginale. E la ricerca della verità nella guerra diventa la prima azione da compiere per poter storicizzare ogni forma di contributo, intellettuale o politico-militante, in riferimento al conflitto.
Gli approfondimenti che verranno condotti sulle pagine di questa rivista nei prossimi mesi andranno proprio incontro a questa necessità. Scoprire come digerire la congerie di informazioni che affollano il quotidiano per comprendere meglio la verità dei conflitti, e giungere così ad un’analisi quantomeno consapevole del ruolo degli attori presenti.
Consapevoli che nulla di buono si possa fare senza capire, volgiamo il nostro sguardo ad un territorio deturpato dalle guerre e angosciato dalle tensioni culturali e storiche per capirne al meglio l’essenza e la grammatica umana.
Per le montagne rocciose del Caucaso s’annida la verità di un conflitto che per troppo tempo è stata ostaggio della propaganda. A noi il compito di pagare il riscatto.