Oggi in Europa siamo in grado di riciclare tra il 30% e il 40% circa dei rifiuti in plastica. Il resto di questi raggiunge gli inceneritori. Negli USA, invece, la percentuale è vicina al 9%. Come possiamo pensare, nei Paesi meno sviluppati, le percentuali si abbassano ancora di più. Ma com’è nato il riciclo della plastica?
LE ORIGINI DEL RICICLO DELLA PLASTICA – Impressionante è notare che, al contrario di altri materiali come vetro o alluminio, il riciclaggio della plastica non è partito come pretesto per la mancanza di risorse dovuto a periodi di guerra. Tutto partì dall’aver constatato che la plastica abbandonata in natura può danneggiare gravemente l’ambiente. Se ci facciamo caso, un rifiuto abbandonato nella natura ci mette all’incirca dai 100 ai 1000 anni per decomporsi.
Il primo centro di riciclo al mondo fu il Plastic Waste Recycling Mill, costruito nel 1972 in Pennsylvania. Il nocciolo del fenomeno, nonché l’idea di partenza, era quello di produrre materia prima dagli scarti della lavorazione, in particolare imballaggi.
Ma come si ricicla la plastica? E come mai non tutta la plastica viene riciclata, bensì incenerita?
LE FASI DEL RICICLO – Il primo passo è lo smistamento. Eseguire la raccolta differenziata è una fase tanto semplice quanto cruciale. La divisione dei rifiuti facilita il processo di riciclaggio e lasciare altre tipologie di rifiuti durante lo smaltimento (come carta o organico) aumenta il rischio che questi ultimi vengano invece portati all’inceneritore, aggravando il rischio di aumento dell’inquinamento atmosferico.
Una volta raccolta, la plastica è inviata agli impianti di riciclo e smistata grazie all’apporto di filtri rotanti. I frammenti più piccoli passano per i fori del filtro, mentre quelli più grandi procedono verso altri filtri con buchi di dimensioni maggiori. Tutto ciò è importante per ottenere gruppi di rifiuti con le stesse dimensioni.
Una volta accumulati, i rifiuti passano alla fase successiva. Uno scanner a infrarossi separa nuovamente i materiali, distinguendoli per tipologia grazie a getti di aria compressa. Esso riconosce, infatti, PET, PVC e PE. I getti aeriformi deviano specifici rifiuti verso sentieri diversi, permettendo un’ulteriore suddivisione.
Al termine di questo processo, degli operai si occupano di rimuovere manualmente eventuali residui, sfuggiti ai macchinari. Questi verranno mandati direttamente all’inceneritore. Si conclude quindi la prima fase del riciclaggio.
Proseguendo, si arriva alla fase della frantumazione. I diversi gruppi di plastica vengono imballati in maniera da formare grossi cubi compatti. Questi vengono portati agli impianti che si adoperano per trasformarli in nuova materia prima. Giunti lì, vengono nuovamente suddivisi per tipologia di prodotto (tappi con i tappi, bottiglie con bottiglie e così via).
Ma, come mai si separano delle tipologie di plastica simili se avviene già una selezione nella fase precedente? Nonostante nella fase di smaltimento i macchinari filtranti abbiano accumulato i rifiuti per tipo (PET, PVC ecc), è necessario selezionare nuovamente i composti poiché potrebbero trovarsi degli additivi differenti al loro interno.
Dopodiché, i rifiuti vengono triturati e lavati per rimuovere tracce di sapone o sporco. Divengono quindi frantumi simili a coriandoli. Pertanto, non è necessario pulire a casa i rifiuti, sino all’ultimo residuo di sporco, prima di gettarli negli appositi contenitori. È accettabile al massimo uno sciacquo grossolano per togliere lo sporco più consistente.
A questo punto, i fiocchi di plastica vengono smistati per colore, uno ad uno, per poi subire un processo di riscaldamento e di successivo raffreddamento. Dopo una serie di ulteriori tagli e sminuzzamenti, il prodotto è finito. Ottenuta, quindi, una massiccia quantità di pellet riciclato, gli usi ora sono molteplici: dalle scarpe alle coperte, da occhiali ad utensili, sedie, vasi e molto altro.
L’INCENERIMENTO – Come discutevamo all’inizio dell’articolo, vi è anche l’incenerimento. Il tutto concerne quelle tipologie di oggetti che vengono elaborati da plurime composizioni di materiali, non più separabili in un secondo momento. Pensiamo ad esempio alle montature degli occhiali. Questi oggetti vengono spediti agli inceneritori o termovalorizzatori, ovvero centrali che bruciano materiale di scarto per generare energia elettrica.
D’altro canto, vi sono anche vere e proprie fornaci di cementifici o acciaierie che sarebbero un’ottima alternativa ai combustibili fossili. Ciò è testimoniato anche da studi energetici che dimostrerebbero che la plastica possiede un valore energetico maggiore del carbone. Un chilogrammo di plastica che brucia produce più energia di un chilogrammo di carbone.
LA SCELTA PIÙ SOSTENIBILE – Dunque, bruciare la plastica è una soluzione sostenibile? Assolutamente no. Quando sottoposta ad un processo di combustione, la plastica rilascia materiali pericolosi per l’ambiente e per l’uomo. Metalli pesanti, diossina e gas serra sono solo alcuni di questi. È pur vero che i moderni depuratori sfruttano precipitatori elettrostatici e filtri che hanno il compito di catturare questi composti. In realtà, stando alle affermazioni del World Energy Council, questi impianti sono una eccellente opzione fintanto che gli impianti di combustione sono gestiti a dovere e i residui sono controllati. È anche d’obbligo affermare che da questi processi di contenimento vi sono anche degli scarti, come ceneri, che devono essere sorvegliati e controllati per prevenire un errato smaltimento.
Per concludere, dal punto di vista energetico, è meglio riciclare o bruciare plastica?
Quando si ricicla, non si adoperano dei combustibili fossili per generare nuova plastica. Quando essa viene bruciata, si produce nuova energia che risulta essere però molto minore rispetto a quella che viene spesa per produrre nuova plastica. In definitiva, la scelta migliore è il riciclo.