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L’Iran verso le elezioni, tra la morte di Raisi e la successione di Khamenei

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La morte di Ebrahim Raisi, avvenuta lo scorso 19 maggio a causa di un incidente aereo, costituisce un ulteriore sviluppo della storia iraniana non privo di rilevanza per la politica interna ed estera. Ora serviranno delle nuove elezioni. In questo specifico caso, l’articolo 131 della costituzione iraniana prevede che l’elezione debba avvenire entro cinquanta giorni e che nel frattempo il vicepresidente sostituisca il presidente morto. Cinquanta giorni di tempo per eleggere un successore quindi. E altrettanti per delineare una strategia di politica interna che permetta di segnare la strada al successore di Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran ormai ultraottuagenaria.
Era infatti proprio Raisi, secondo una consolidata opinione degli analisti, il potenziale successore di Khamenei – deja vù per il popolo iraniano, dato che lo stesso Khamenei successe a Khomeini dopo essere stato Presidente della Repubblica. Un cursus honorum che soffoca già nella culla, rendendo le strade del futuro ancora più impervie.

CHI ERA EBRAHIM RAISI – Raisi, sebbene non detenesse le redini del potere istituzionale iraniano come taluni hanno affermato in questi giorni, non era di certo un uomo comune. Aveva trascorso oltre quindici anni della sua vita da studente di Ali Khamenei, conquistando le principali posizioni di spicco nell’ambito della magistratura islamica. Infatti, nei primi dieci anni della rivoluzione islamica iraniana era stato procuratore di Karaj e Hamedan, nonché procuratore rivoluzionario di Teheran. E proprio a Teheran, come membro del “Comitato della morte” della provincia, fu esecutore nel 1988 dell’ordine di uccisione di circa mille oppositori politici, dando storica vividezza al volere di Ruhollah Khomeini (fu questo l’evento storico che gli valse il soprannome di “boia di Teheran”).
La crudezza e il temperamento sadico da lui dimostrati durante questi anni vennero a galla durante le elezioni del 2017 e gli costarono la sconfitta. Scenario che non ebbe modo di ripetersi per le successive elezioni del 2021, dato che il presidente uscente, Hassan Rouhani, non fu ammesso alla competizione su ordine del Consiglio dei Guardiani. Con la strada disboscata mediante la forza delle legge e della repressione, Ebrahim Raisi ebbe la vittoria in tasca.

L’AFFLUENZA ALLE URNE E LA LETTERA DI ROUHANI – Diciamo subito che gli iraniani non furono molto propensi alla partecipazione elettorale nelle ultime elezioni: con il suo 41%, l’affluenza è stata ai minimi storici dal ’79. La desertificazione delle urne è dovuta in specie ad una sorta di ritirata aventiniana dei riformisti rouhanisti, indisposti dalla esclusione del loro leader. Cosicché il “boia di Teheran” ha finito per essere eletto e al tempo stesso delegittimato da meno della metà degli aventi diritto.
Qui bisognerà subito esorcizzare quelle retoriche manichee (o autoreferenziali, se preferite) di certi analisti occidentali, i quali ritengono che tutto l’elettorato iraniano sia desideroso d’instaurare una democrazia sul modello occidentale. Della serie: tutti quelli che non sono come noi desiderano esserlo, ma alcuni leader tirannici glielo impediscono rinchiudendoli nelle autocrazie. Lo scenario è un po’ più sfumato di così. E a dimostrarlo c’è proprio l’inaspettata lettera aperta dell’ex presidente Rouhani, seguita alla sua estromissione dalle elezioni per l’Assemblea degli Esperti (organo che dovrà eleggere la prossima Guida Suprema).
Rouhani non è di certo un politico che ha in simpatia l’Occidente. Tutt’altro: il suo rapporto con Washington non ha deviato dalla strada maestra tracciata dagli ayatollah, ma parimenti ha permesso la concretizzazione di una linea pragmatica sulla vicenda del nucleare.

GLI SCENARI RIMANGONO INCERTI – L’economia iraniana vive momenti critici, e la pressione interna per le proteste – non solo quelle seguite alla morte di Masha Amini – è una delle preoccupazioni in cima alla lista per il Governo provvisorio. Ma le gatte da pelare per Khamenei non finiscono qui: c’è da preparare la sua successione, quindi bisognerà trovare una testa di legno che permetta un interludio tra la sua elezione e quella del figlio (Raisi si sarebbe ben prestato a questo gioco); bisogna poi monitorare le tensioni con Israele e contribuire ad una cessazione dei combattimenti a Gaza, soprattutto ora che le redini delle trattative sono state assunte da Egitto e Qatar e che il procuratore della CPI Khan si è risolto a chiedere l’incriminazione di Netanyahu e dei vertici di Hamas; dopodiché bisognerà scegliere che fare con il JPCOA (l’accordo sul nucleare), soprattutto adesso che l’amletico fantasma elettorale di Trump ricomincia ad aleggiare sulla Casa Bianca; e infine bisognerà garantire il perseguimento di una strategia di lungo periodo in chiave antioccidentale (quindi antiamericana) con Cina, Russia e Corea del Nord. Ognuno di questi elementi critici rappresenta un fattore di elevata importanza per il futuro prossimo dell’Iran, con o senza Raisi.

di Domenico Birardi

Attivista politico e studente della Facoltà di Giurisprudenza a Taranto all'Università Aldo Moro.

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