“Rassegna di meridionalismi” è una rubrica del mercoledì sera che ha il fine di riannodare la storia del meridionalismo, dalle origini sino ad oggi. In questo articolo ci occupiamo di una figura di riferimento del meridionalismo della seconda generazione: Francesco Saverio Nitti.
Un meridionalista d’eccellenza fu sicuramente Francesco Saverio Nitti. Nato a Melfi il 19 luglio 1868, egli rappresentò l’ispirazione ideale di primo rilievo per il nuovo meridionalismo, sorto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Condusse inoltre una intensa attività di pubblicista, che cominciò sin dalla più giovane età. A soli venti anni pubblicò il primo saggio, L’emigrazione italiana e i suoi avversari, esponendo una dura critica nei confronti del disegno di legge sull’immigrazione dell’on. Crispi.
Nello specifico l’attenzione era indirizzata nelle prime pagine agli effetti restrittivi delle politiche adottate da Crispi:
Proibita, però, o almeno resa difficile, anche ogni onesta mediazione, le relazioni fra l’armatore e il contadino, che intende emigrare, diventano più difficili e assai meno agevoli. E così, senza sembrar tale, il disegno di legge dell’on. Crispi, se diventasse una legge, riuscirebbe a limitare, e a rendere malagevole l’emigrazione.
Nel secondo e nel terzo capitolo del saggio, invece, si occupa di analizzare la storia dell’emigrazione italiana e il ruolo degli agenti di emigrazione. Si osserva infatti che:
L’emigrazione europea prese un aspetto importante, soltanto dopo la pace generale del 1815. Le guerre napoleoniche portarono un largo disquilibrio e in quasi tutti gli Stati europei cominciò a svolgersi ed a svilupparsi grandemente il bisogno dell’emigrazione. Prima del 1860, invece, la emigrazione italiana per paesi non europei non ebbe che una lievissima importanza. Esisteva piuttosto in Italia una vera e propria emigrazione interna; gli Abruzzesi scendevano dai loro monti nella campagna romana, i Bergamaschi ed i Comaschi emigravano in Liguria, ecc., ecc.
La conclusione del saggio era inequivocabilmente volta a smentire le ragioni alla base della scelta di una politica restrittiva in materia di emigrazione:
Così che, tutto sommato, i timori che generalmente si hanno dell’emigrazione, mi sembrano a dirittura infondati. L’Italia non ha avuto da essa economicamente alcun danno; il prezzo delle terre è rimasto inalterato, e se in alcuni punti, per cause estranee all’emigrazione è diminuito, in alcuni altri, proprio, per effetto dell’emigrazione, è aumentato; i salari sono rimasti invariati, se bene, fortunatamente, tendano a rialzarsi, e la delinquenza è venuta rapidamente a decrescere. È stata soltanto l’emigrazione che ci ha salvato dalla miseria e dalla crisi agraria, che ha distrutta la triste necessità della vendita dei bambini addetti a mestieri girovaghi, e che, per alcune provincie, che la mancanza di ogni ricchezza sociale avea discreditato, è stata in faccia al mondo una vera e propria riabilitazione.
L’azione politica e intellettuale di Nitti, sin dalla giovane età, fu ispirata dalla dottrina di Giustino Fortunato. La sua visione politica non può essere a rigore incardinata né nell’alveo del conservatorismo d’antan, né entro la cornice del rivoluzionarismo socialista. La dottrina nittiana è figlia di una politica mediana che tenta di coniugare la solidarietà sociale alla moderna organizzazione taylorista, non tralasciando mai i postulati del liberismo smithiano ancora imperante.
La dottrina nittiana non approcciava al processo postunitario con il piglio dogmatico di certo patriottismo dell’epoca. Al contrario, essa fu promotrice di un’aspra critica nei confronti della politica legislativa, economica e tributaria del Regno. Sul suo più celebre saggio, Nord e Sud, pubblicato nel 1900, Nitti tratteggiò in maniera nitida e inequivocabile i danni cagionati al Sud:
Dal 1860 ad oggi vi è stato un drenaggio continuo di capitali dal Sud al Nord, per opera della politica dello Stato; parecchi miliardi si sono trasportati in questo periodo di tempo dalla parte meridionale della penisola, che era già la più povera, alla parte settentrionale, che era già la più ricca. A traverso tanti canali, creati dalle leggi, molta ricchezza per vie ignote o poco note è emigrata dal Mezzogiorno.
Tali frammenti rendono la chiara idea di quanto la dottrina nittiana non risparmiasse critiche, anche severe, alle scelte politiche successive all’unità. L’idea-progetto rimaneva ciononostante sempre quella: la modernizzazione. Francesco Barbagallo in Lezioni di meridionalismo rimarca la natura riformista del meridionalismo di Nitti, e sottolinea che:
Protagonisti del processo di trasformazione dovevano essere scienziati e intellettuali-tecnici: una scienza al servizio della modernizzazione, una cultura delle riforme. Era un’ambiziosa strategia politica che coniugava sviluppo produttivo, democrazia economica e riforme sociali. Alti salari, espansione produttiva, organizzazione economica dei lavoratori costituivano l’alternativa alla rivoluzione socialista. La prospettiva nittiana indicava un’alleanza riformatrice di imprenditori produttivi, organizzazione dei lavoratori, intellettualità tecnica.
Il fulcro del pensiero di Nitti è l’industrialismo: solo attraverso una modernizzazione delle strutture produttive e la crescita di una società industriale nel Mezzogiorno sarebbe stato possibile generare la ripresa tanto attesa, superando la divisione con il Settentrione. Il protezionismo, tanto ostracizzato da buona parte dei meridionalisti dell’epoca, diventava cosa necessaria.
La sua attenzione fu indirizzata al ruolo che l’energia elettrica avrebbe potuto nell’industrializzazione del Sud. La produzione energetica doveva servirsi del dislocamento delle acque, sostenendo i sistemi idroelettrici di produzione e superando il vapore. Sempre Barbagallo afferma che:
Dal controllo delle acque pubbliche dipendeva tutta la complessa strategia di rinnovamento agroindustriale per il Mezzogiorno e per Napoli: produzione della forza motrice a buon mercato, bonifiche, irrigazione, trazione elettrica, sistemazione dei fiumi, lotta alla malaria. La proposta di nazionalizzare l’energia elettrica non perseguiva il fine politico di accrescere il ruolo dello Stato.
Nitti non parlava dunque di una nazionalizzazione della produzione in generale sul modello socialista, ma nemmeno di un totale abbandono da parte dello Stato in un regime di laissez faire. La nazionalizzazione della produzione energetica avrebbe dovuto fungere da moto propulsore per lo sviluppo della piccola e media borghesia. La sua proposta non fu però accettata da nessuno schieramento, dal momento che il settore energetico rappresentava il motore di una produzione innovativa di gran lunga superiore rispetto agli altri campi; l’interesse delle società private fu dunque ferinamente predatorio, e i grandi conglomerati non lasciarono spazio a questo genere di riformismo.
Se da un lato la questione dell’energia non faceva che trovare avversari, dall’altro spiegava le vele il progetto nittiano di una «Napoli industriale». L’attenzione dell’economista lucano per la città partenopea fu espresso nel celebre saggio Napoli e la questione meridionale, pubblicato nel maggio del 1903. Proprio nelle prime pagine Nitti continua sostenere, proprio come nel precedente saggio, la natura dannosa del processo postrisorgimentale:
(…) fra l’Italia del Nord e l’Italia del Sud la differenza di condizioni economiche e sociali è ora assai maggiore che nel 1860. Vi sono ora due Italie: una progredisce rapidamente, entra già nella zona della civiltà industriale; l’altra si dibatte in strettezze crescenti, L’Italia del Nord non aveva quasi grande industria nel 1860; in ogni modo non aveva più che il Regno delle Due Sicilie: da che dipende la differenza attuale? la libertà è stata dunque un veleno per le genti meridionali? Un esame profonde della questione ha menato a cui non è possibile sfuggire. L’unità politica ha giovato molto disugualmente: le leggi economiche, tributarie, le stesse leggi di carattere sociale giovano al Nord e spesso nocciono al Sud. Il Mezzogiorno sopporta un carico tributario molto superiore rispetto alle forze: in compenso riceve dall’unità vantaggi molto minori.
In uno scenario di tal guisa, la stessa Napoli si faceva estremo della questione meridionale; essa e la Basilicata erano due estremi condivisi dal resto del Sud d’Italia: la decadenza della grandezza da un lato, e lo spopolamento desolante della campagna dall’altro. Nitti rimarcava già dapprincipio che la questione meridionale di allora era riassumibile in questi due estremi, dal momento che Puglia, Calabria, Molise, Abruzzo e Sicilia avevano qualche cosa dell’una e qualche cosa dell’altra.
Perciò su Napoli si soffermò per compiere a sua analisi. L’industrializzazione della città doveva passare per una rottura dell’uniformità legislativa italiana: differenti problemi dovevano condurre a differenti soluzioni. Una legge speciale per Napoli si faceva imperativo, laddove lo sviluppo industriale, se non adeguatamente sostenuto, avrebbe portato all’occupazione da parte delle grandi industrie energetiche private. La legge speciale fu approvata dalla Camera nel 1904.
Francesco Barbagallo descrive così gli effetti della legge speciale:
Erano previste agevolazioni fiscali e doganali, infrastrutture e commesse per sollecitare l’iniziativa capitalistica locale e per richiamare il capitale settentrionale verso un processo di industrializzazione, di cui furono esempi rilevanti gli stabilimenti della zona orientale di San Giovanni a Teduccio e soprattutto il grande impianto siderurgico a ciclo completo dell’Ilva a Bagnoli.
Divenuto Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio dovette rinunciare al progetto di nazionalizzazione dell’industria elettrica, ripiegando così sull’affidamento ai privati. La realpolitik di Nitti tentò di preservare il fine (l’industrializzazione del Sud) rinunciando ai mezzi. Una massima espressa durante il comizio del 12 ottobre 1913 nel suo collegio di Muro Lucano è emblematica di tale approccio:
La politica è fatta di realtà: non basta esprimere idee e né meno tracciare programmi.
Il pensiero di Francesco Saverio Nitti era forse nient’altro che questo: un liberalismo democratico fortemente pragmatico radicale e riformista. Il nocciolo duro della sua politica progettuale era da ritrovare in una forma di industrialismo moderno in grado di attenuare il divario tra Nord e Sud. Rimase per decenni un punto di riferimento indiscutibile.