Un ghigno disteso si trasforma in una precisa iscrizione semiotica del corpo dell’uomo nella struttura del potere. Il nome “Gwynplaine” può significare poco per chi non abbia letto L’uomo che ride, ma per chi già l’avesse incontrato all’incrocio di qualche pagina egli è una tragica coazione alla visibilità. Il volto sfigurato del povero si tramuta nello strumento attraverso cui la violenza istituzionale dell’ordine sociale si rende manifesta. Et semper ridebis. L’uomo che ride è un romanzo storico che smaschera la regola di un’esclusione sistemica: vivace atto d’accusa contro il potere che disarma e deride.
LA CARNE DEL RISO – Nel mondo narrativo costruito da Hugo la tragedia è generata dall’irrevocabile compiutezza di una scena inaugurale: il giovane Gwynplaine è sfigurato. L’atto della Comprachicos, setta segreta che agisce ai margini dell’ordine ufficiale ma ne incarna perfettamente la logica, deforma le sue carni e inscrive in esse una risata. Hugo coglie qui, con lucidità che precorre la riflessione di Foucault, una trasformazione epocale nella natura del dominio: il potere costruisce, produce visibilità e trasforma il corpo in superficie di iscrizione ideologica. La devianza viene resa funzionale e fatta spettacolo.
Che Hugo scelga proprio il riso – elemento ambivalente nella tradizione culturale europea, legato tanto al rovesciamento quanto alla liberazione – non è affatto accidentale. Si tratta di un rovesciamento del rovesciamento: ciò che in Rabelais o nel carnevale bakhtiniano poteva essere strumento critico, qui diventa meccanismo di riduzione. L’ideologia monarchica trova nel volto di Gwynplaine il proprio simbolo perfetto, poiché la sua anomalia serve a rendere stabile il normale.
LA POLITICA DEL VISIBILE – La narrazione è franta, diseguale, eccedente, attraversata da dislivelli tonali, escursioni dall’epico al grottesco e dal registro elegiaco alla caricatura. Anche qui, l’effetto non è affatto casuale: è il riflesso di una poetica consapevole della frantumazione che già attraversava il mondo dell’epoca. La stessa Préface de Cromwell, nella quale Hugo aveva delineato la necessità per la letteratura dell’epoca di tenere insieme il sublime e l’orrido, trova qui un’esecuzione esemplare. L’unità è definitivamente preclusa: ciò che resta è una dialettica disarticolata, in cui le parti coesistono nella tensione.
In questa logica, Gwynplaine diventa una figura più che personaggio. L’opera è costretta a compiersi sotto il segno della deformazione: a ogni tentativo di lirismo corrisponde un contraccolpo ironico e a ogni slancio tragico una deriva farsesca. Il romanzo simula le convenzioni del feuilleton ottocentesco (colpi di scena, travestimenti e pathos melodrammatico) solo per destabilizzarle dall’interno. L’eccesso stesso diventa una strategia di smascheramento.
Per questa ragione, il momento apparentemente culminante (il discorso di Gwynplaine alla Camera dei Lord) non produce alcuna rottura. La parola del mostro, che dovrebbe squarciare il velo della menzogna e portare la verità nella sede del potere, si infrange contro l’indifferenza della scena. Il volto immobile di Gwynplaine paralizza ogni effetto della parola: la maschera che parla svuota il contenuto del discorso.
L’IO SPEZZATO – La costruzione narrativa si organizza attorno a un centro radicalmente lacerato, il personaggio di Gwynplaine. Hugo dispone poi figure secondarie (Dea, Ursus e Homo), ognuna delle quali corrisponde a una dimensione dell’umano sottratta al protagonista. Dea, cieca dalla nascita, si sottrae all’affabulazione della rappresentazione visiva e diventa emblema della vista vera, illuminata. È il correlato dell’ekphrasis: la voce che parla di ciò che non può essere visto. A fianco a lei, Ursus rappresenta l’impotenza della ragione illuministica. Dotato di un sapere erudito, ironico e digressivo, egli commenta e dirige senza incidere. In lui si riflette la coscienza autoriale del romanzo stesso, consapevole di operare in un mondo in cui il logos è stato esautorato. Ursus è la scrittura che non modifica il corso degli eventi. Da ultimo, c’è Homo: l’animale che accompagna l’uomo e si collega a filo diretto alla natura. Egli incarna una naturalità originaria sottratta a Gwynplaine sin dalla nascita.
Queste tre figure sono le tre dimensioni attraverso cui si definisce per negazione l’assenza di unità in Gwynplaine. Bellezza, ragione e istinto: tutte qualità che non coincidono più nel soggetto. Il soggetto che vi si muove è franto e disgregato. In questo senso, l’opera potrebbe essere intesa quale requiem per l’individuo contemporaneo: dissolto nella propria rappresentazione e incapace ormai di un volto che dica la verità di una voce.
LA SCRITTURA COME ATTO D’ACCUSA – L’opera, che d’un primo acchito sembrerebbe avere l’aspetto di un romanzo storico ambientato nella temperie istituzionale dell’Inghilterra post-stuartiana, disattende sistematicamente le convenzioni del genere e le sue premesse epistemologiche. Hugo prende le distanze dal paradigma positivista della restituzione documentaria del passato. La ricostruzione storica è piegata invece a un uso allegorico, ponendo le basi per una storicizzazione della critica politica a Napoleone III.
Composto durante l’esilio guernesiano, il libro assume un chiaro significato politico. Hugo inscena un mondo in cui la maschera monarchica è la manifestazione ricorrente e metastorica del potere assoluto. L’arco simbolico che collega l’ancien régime all’Impero vede nella restaurazione dell’autorità la forma normale della modernità autoritaria.
Lo stile eccessivo e barocco del romanzo deve essere invece interpretato come strategia di opposizione. L’autore cerca la verità nella deformazione, nell’eccesso e nel grottesco sublime. Solo se letta in questo senso, la fine di Gwynplaine costituisce l’adempimento coerente di una logica che rifiuta la conciliazione. Hugo non salva il suo protagonista: lo immola sull’altare dell’intransigenza verso la tirannide. Et semper ridebis, etiam in morte.