Nasciamo per morire o per incominciare?
Prospettive umane dicotomiche che indicano un diverso approccio alla condizione esistenziale.
La vita, bios, è legata non solo alla nostra condizione biologica in quanto esseri naturali, ma contiene una rappresentazione superiore di significato relativa al senso e alla direzione che ciascun uomo o società vi attribuisce.
Vivere indica la possibilità di conciliare i nostri bisogni primari, legati alla mera sopravvivenza nell’ambiente naturale, con aspirazioni di natura superiore che concernono la sfera dell’intelletto, più sofisticata rispetto alla prima. L’uomo nasce non solo per adattarsi all’ambiente naturale, ma costruisce orizzonti di senso per interpretare la realtà secondo una prospettiva superiore dell’intelletto di cui è dotato. Per tal motivo la vita biologica deve allinearsi con la dignità e l’integrità psichica.
Il termine eutanasia deriva dall’unione delle parole greche “eu” (εὔ) e “thanatos” (θάνατoς), che in italiano corrispondono, rispettivamente, a “bene” e “morte”. Pertanto, il significato letterale di eutanasia è “buona morte” o “morte a fin di bene“.
Il memento mori, ovvero la memoria e la consapevolezza della propria ineluttabile fine, ha sempre alimentato angoscia e dolore, costituendo numerosi motivi di riflessione.
Nel mondo greco la pratica di poter scegliere di porre fine alla propria vita per sottrarsi al dolore era considerata lecita, soprattutto per gli anziani. Particolarmente densa di significato è l’accettazione della morte da parte di Socrate, padre della filosofia occidentale; infatti egli acconsentì di bere la cicuta e di morire, nella convinzione che nulla fosse da temere. Platone ricostruisce il discorso del suo maestro Socrate nel celebre dialogo Dell’Apologia: “La morte è una di due cose: o è un annientamento e non c’è più alcuna percezione, oppure, come si dice, è un cambiamento, una migrazione dell’anima da questo luogo a un altro” (Apologia di Socrate, 40c), a dimostrazione del fatto che l’ineluttabile per l’uomo può solo essere un grande mistero da scoprire e che una vita senza ricerca e libertà non può considerarsi degna di essere vissuta.
La morte nel mondo greco antico non poteva essere evitata, era accettata con serena rassegnazione e il martirio era considerato una manifestazione di virtù e di coraggio.
Emblematica è la considerazione del suicidio nell’orizzonte della filosofia, è uno dei temi più complessi e controversi, perché tocca la libertà individuale, il senso della vita, la responsabilità morale e la relazione dell’individuo con la società, la natura e il divino. Tra le principali posizioni filosofiche significativa è la posizione di Seneca, secondo il quale Il suicidio può essere un atto razionale e morale se la vita non è più conforme alla virtù. È un’espressione di libertà: meglio morire che vivere schiavi o degradati.
La morte, in Seneca, non è un evento da temere, ma una realtà naturale da comprendere e accogliere con serenità. Nella sua visione stoica, la morte è necessaria, inevitabile e, soprattutto, non è un male. È parte dell’ordine cosmico e razionale della natura: ogni essere nasce, cresce, declina e si estingue, e non vi è nulla di irrazionale in questo ciclo.
Seneca insiste sul fatto che la paura della morte nasce dall’ignoranza e dall’attaccamento irrazionale alla vita. Seneca si suicidò nel 65 d.C., su ordine dell’imperatore Nerone, ma la vicenda va letta all’interno di un contesto più ampio e complesso, segnato da intrighi politici, tensioni morali e dalla filosofia stoica che egli stesso professava. Il filosofo fu accusato di aver partecipato alla congiura dei Pisoni, un complotto ordito da aristocratici e senatori per assassinare l’imperatore Nerone, di cui era stato precettore, e restaurare un governo più moderato. Non ci sono prove certe della sua reale partecipazione, ma Nerone, che ormai vedeva traditori ovunque e temeva l’influenza morale di Seneca, colse l’occasione per liberarsene. Quando gli fu ordinato di togliersi la vita, Seneca scelse di farlo in modo coerente con i principi stoici: accettare il destino con dignità, dominare il dolore, e morire secondo virtù, senza paura. Aprì le vene e affrontò la morte con calma, cercando di consolare moglie e amici, trasformando il suo morire in un atto teatrale e filosofico, quasi un’ultima lezione. Chi vive rettamente, chi ha esercitato la propria ragione e ha formato il proprio animo secondo virtù, è pronto a morire in qualsiasi momento. La morte, per il saggio, è solo un passaggio, un ritorno alla natura, come il tramonto segue il giorno. Nei Dialoghi, nelle Lettere a Lucilio, ma anche nei suoi Trattati morali, ribadisce che la vera libertà consiste nell’essere padroni di sé fino alla fine, anche di fronte alla morte.
Non è vivere a lungo, ma vivere bene, che conta. Vivere bene significa vivere secondo virtù, senza lasciarsi dominare dalla paura, dal desiderio e dalle passioni. La morte, in questo contesto, è spesso presentata come un’amica, un porto sicuro che ci libera dai mali della vita, e come l’ultimo atto in cui il saggio dimostra la sua grandezza. Non a caso Seneca si sofferma spesso sulla morte volontaria, che per lo stoico può essere un atto di suprema libertà e coerenza: “Non è la morte a essere temuta, ma il morire male. […] Ma morire bene è in nostro potere.”(De providentia, VI, 6). Il suicidio scelto da Seneca è un atto filosofico di libertà.
Il tema del suicidio e della dolce morte indotta per alleviare le sofferenze si riferisce anche al celebre “colpo di grazia”, dal francese coup de grace, che letteralmente indica un colpo misericordioso, finale, inferto a un combattente ferito gravemente sul campo di battaglia per alleviarne le sofferenze, un gesto di pietà ultimo. Questa pratica ha contribuito ad attribuire un nome specifico alla lama con cui generalmente si infliggeva il colpo finale, la misericordia, proprio per sottolinearne l’uso compassionevole.
Con l’avvento del cristianesimo la pratica del suicidio e dell’eutanasia verrà considerata peccato mortale, perchè solo a Dio, il quale per atto d’amore dona la vita, è concesso toglierla.
Nell’orizzonte della filosofia dell’Ottocento Schopenhauer considera il suicidio alla stregua del suo pessimismo estremo, dove la vita è dominata dal dolore e da una forza cieca e irrazionale. Il suicidio rappresenta non una liberazione dalla Volontà e dalla sofferenza e dalla noia, ma un atto estremo in cui l’individuo cede alla Volontà stessa: “Il suicidio è un errore: non è la volontà che viene distrutta, ma soltanto il fenomeno. È la distruzione della manifestazione individuale, non della volontà universale”. Chi si toglie la vita, non è un eroe tragico, ma un uomo che ha sperimentato a fondo l’orrore dell’esistenza, senza trovarvi soluzione.
Nel Novecento una testimonianza concreta della scelta di ricorrere all’aiuto della scienza per porre fine alle sofferenze in maniera silente ed indolore, è quella di Sigmund Freud, padre della psicanalisi. Il medico che ha rivoluzionato lo studio e l’approccio alla psiche in un orizzonte di senso completo, nell’opera Al di là del principio del piacere del 1920 introdusse il concetto di “pulsione di morte” (Thanatos) e “pulsione di vita” (Eros) Secondo lui, oltre alle pulsioni di vita (Eros), esiste nell’essere umano una pulsione che tende al ritorno allo stato inorganico, alla fine della tensione: la morte.
Negli ultimi anni della sua vita, Freud fu colpito da un dolorosissimo cancro alla bocca. Dopo 33 interventi chirurgici, dolore cronico e difficoltà a parlare e mangiare, chiese lui stesso al suo medico, Max Schur, di porre fine alle sue sofferenze. Schur, che era anche psicoanalista, rispettò la richiesta e gli somministrò dosi letali di morfina nel 1939. In questo senso, Freud fu oggetto di un’eutanasia “compassionevole”, anche se il termine e la pratica non erano ancora formalizzati come oggi. Da un punto di vista teorico, Freud non si espresse direttamente a favore o contro l’eutanasia, ma la sua riflessione sul dolore, la sofferenza psichica e la morte ha influenzato molti dibattiti successivi sull’argomento. A suo parere per la maggior parte degli individui la propria morte è impensabile, perché viviamo tutti nella convinzione inconscia della nostra immortalità, in realtà noi immaginiamo solo la morte degli altri e non la nostra. L’obiettivo della civiltà è proprio quello di neutralizzare la nostra pulsione di distruzione: “La morte è il fine della vita, fin dall’inizio è implicita in essa, e la vita si avvia da essa nella direzione del suo fine” (Al di là del principio del piacere, 1920).
Sulla base delle diverse riflessioni non resta che rimanere incastrati nel dubbio e concludere nella domanda: è lecito porre fine alle sofferenze umane quando esse minano profondamente la dignità della vita? È lecito decidere quando e come morire, se non abbiamo scelto di nascere? È lecito porre la misericordia della scienza per emanciparci dallo stato di natura? È lecito morire con stoica rassegnazione per un atto di libertà? A ognuno la propria scelta, allo Stato le possibilità.