“Il pensiero di Hannah Arendt” è un approfondimento monografico che sarà pubblicato a puntate. In questo quarto articolo ci occupiamo della politica e della comprensione del male contemporaneo.
Interpretare il male totalitario alla luce delle categorie tradizionali non è sufficiente per restituire senso agli eventi che hanno travolto il secolo scorso, ma è necessario comprendere il passato portandolo alla luce in tutta la sua “fattualità” e concretezza, senza cadere nella trappola della metafisica. Questo sarà il percorso che tenterà di tracciare la Arendt, attraverso uno sforzo di recupero della tradizione da un lato, per individuare elementi di crisi, ma con uno spirito del presente dall’altro, dato che il totalitarismo rappresenta un fenomeno completamente “inedito” nella storia.
Comprendere il male contemporaneo significa rivisitare la storia e coglierne gli elementi di realtà attraverso le testimonianze delle vittime e le dichiarazioni e le interpretazioni dei carnefici, al fine di non correre il rischio di ricadere nella metafisica e nella mitizzazione di un fenomeno in cui milioni di persone, giudicate “inferiori” e “non degne di abitare il mondo”, sono state private del diritto all’esistenza. La filosofia della Arendt riflette proprio questo aspetto, è una filosofia della vita, poiché il punto di partenza, ma anche quello di arrivo, è costituito dalla categoria della natalità, del nuovo inizio attraverso l’azione e la libertà. Da questa prospettiva il male deriva dall’impossibilità del dispiegamento del raggio di azione che caratterizza gli individui nella loro assoluta originalità e capacità di apportare al mondo un contributo fondamentale affinché si orienti la propria esistenza come superamento dello stato di natura e come trionfo della libertà, ciò che distingue gli uomini dagli animali.
Nel testo del ’51, “Le origini del totalitarismo”, Hannah Arendt analizza la fenomenologia dell’evento dall’antisemitismo, all’imperialismo sino alla delineazione essenziale e specifica delle forme attraverso le quali si può inquadrare il totalitarismo, caratterizzazioni analitiche che rappresentano poi le divisioni tematiche che articolano e suddividono l’opera stessa. Al suo interno il male viene descritto come un fenomeno radicale ed estremo che si manifesta in tutta la sua ferocia negli immensi laboratori creati dai nazisti per “concentrare” e “sterminare” individui considerati “inferiori”, come gli ebrei, i nomadi, i minorati fisici e psichici, gli omosessuali, in cui il concetto di persona viene lacerato e distrutto per cedere il posto ai nuovi “uomini cadavere”.
Se nel testo del ’51 il male è descritto ed individuato nella sua assoluta “radicalità”, simbolo dell’orrore e dell’annullamento della persona umana e della possibilità di agire nel mondo con la singolarità che è propria e caratterizzante di ogni singolo individuo, nel reportage su Eichmann del ‘63, raccolto poi nello scritto dal titolo “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, compendio del processo a cui la Arendt partecipò come inviata del New Yorker, il male comincia a rivelarsi qualcosa di ancora più sottile e sfuggente alla comune capacità di sentire e rappresentarsi gli eventi totalitari. Qui assume la forma della “banalità”, della profonda negazione del pensiero e della capacità di giudizio che sottende imprescindibilmente la possibilità di agire in un contesto comune di condivisione ed accettazione dell’Altro. Eichmann è rappresentato alla stregua di un uomo “banale”, in cui i criteri di rappresentazione della realtà logica e concretamente esistente sono stati sostituiti dalla vacuità di un’ideologia frutto della riduzione della complessità delle cose sotto la sfera dell’Uno, ovvero la cieca obbedienza ai comandi di Hitler. Questo individuo è “visto” dalla Arendt come l’incarnazione della decadenza morale in cui imperversava la coscienza dell’Occidente e dove la riduzione della complessità del mondo e degli individui all’omologazione indiscriminata diviene la conseguenza di una intera tradizione di pensiero e di costumi che affonda le sue radici in un passato molto lontano. Il totalitarismo è concepito dalla Arendt sotto una dimensione fenomenologica molto complessa, esso diviene l’inedito nella storia, ma alcuni elementi che lo caratterizzeranno nella sua essenza sono già presenti nella storia del pensiero occidentale sin dalla classicità, sin dal pensiero di Platone e sin dalla decadenza della polis greca.
La volontà di potenza che scaturisce nella violenza del progetto imperialistico dell’uomo occidentale, il nichilismo come perdita della stabilità e della certezza di valori condivisi e fondanti l’impalcatura di una civiltà, l’antisemitismo come veleno sottile pronto ad emergere quando i tempi sono maturi per il sacrificio e il consenso, la sostituzione della pluralità con la società di massa unificata sotto l’essenza del pensiero Unico, sono tutti elementi che ravvisano la comparsa sulla scena storica di un fenomeno completamente originale rispetto al passato e che rappresenta la sintesi finale della miseria politica e morale che corrode una civiltà.
Molti pensatori hanno analizzato, nel primo ventennio del Novecento, tutti i cambiamenti che la nuova civiltà occidentale avrebbe dovuto affrontare e magari filtrare per evitare tragiche conseguenze, tra cui la riflessione di Spengler sul declino dell’Occidente che merita attenzione, poiché il declino è inteso come quello di un grande impero giunto, ormai, verso la fase decadente della civilizzazione e destinato a cadere nelle macerie del suo eccesso.
La riflessione arentiana sul male si inserisce all’interno di una dimensione molto complessa che affronta tutte le dinamiche storico-filosofiche che hanno contrassegnato la comparsa della crisi della politica nella sua accezione classica, ovvero come palcoscenico di riflessione comune e partecipata alla sfera pubblica, in cui l’elemento imprescindibile è rappresentato dalla pluralità e dalla natalità, intese come possibilità di azione libera ed imprevedibile nel mondo. Il male contemporaneo nega all’individuo la possibilità di essere tale, ovvero annulla la dignità dell’essere proprio attraverso la riduzione a “cosa inanimata”, annullando contemporaneamente anche il ricordo e gettando il progetto delle possibilità nella sfera del nulla. Se la politica si eclissa e da questo fenomeno ne consegue la riduzione della pluralità del mondo a vittima e carnefice, tutto perde significato e l’orizzonte comune di appartenenza viene popolato da esseri privati della capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo. Tutto ciò è “banale”, non nella direzione del ridimensionamento della ferocia e della tragicità di tale dominio del nulla, ma nel senso che gli attori dello scenario in riferimento sono “marionette” di un ordine di cose che contiene al suo interno i germi della propria inevitabile dissoluzione. Il totalitarismo di Hitler e di Stalin sforna carnefici da “scrivania”, individui privati della capacità di pensare ed attratti dalla “sicurezza” di un nuovo ordine che si impone come portatore di senso, anche se un senso non lo possiede, e che si dirige verso la distruzione del genere umano nella sua autenticità. Sotto tale prospettiva il male non possiede essenza e profondità, non è la manifestazione concreta di un essere demoniaco, ma è la banale costruzione di individui atomizzati ed incapaci di pensare.
Uomini in cui sia venuta meno la capacità di “giudicare”, insieme alla possibilità di provare un “rimorso”, diventano il simbolo di una catastrofe già annunciata e che con la sua banale esecuzione burocratica, che designa un modo di procedere tutto contemporaneo nella rappresentazione della realtà, rende possibile la comparsa di un male che, a ragione, possiamo definire radicalmente e assolutamente “banale”. Il darwinismo sociale come interprete della società “forte”, che ha come unico obiettivo la sopravvivenza di una specie dominante che schiaccia la debolezza e che presume di regolare la propria esistenza sotto le leggi della natura, è l’espressione dell’annullamento della dimensione autentica dell’esistenza umana che si esprime secondo libertà.
Dal lacerante dissidio tra pensiero e azione, tra teoria e prassi nasce il progetto tecnoscientifico di dominio del mondo e di trasformazione della sfera dell’azione in adeguatio ad una realtà la cui logica imperante è quella del fare e del fabbricare, in cui l’accumulazione di cose e di ricchezze ha la priorità sulla sfera della responsabilità morale verso il mondo. Il male politico esprime perfettamente tale dissidio e tale pretesa di annullamento della capacità di giudicare, obiettivo impossibile da compiere pienamente anche per il più risoluto e feroce dei totalitarismi, comporta la totale scissione del senso di appartenenza ad un orizzonte comune di azione e del rapporto di responsabilità che ognuno instaura con altri esseri.
Il problema del male è analizzato dalla Arendt non dal punto di vista di una realtà ipostatica ed ontologica, esso non possiede una dimensione metafisica ed ontologica, non è neanche inquadrato staticamente all’interno di una cornice mitica, ma compare quando vengono meno le condizioni che rendono possibile l’azione ed il dialogo liberi nello scenario pubblico, quando la volontà di potenza si impone come schiacciamento dell’Altro.
Tante sono le condizioni che la Arendt analizza per inquadrare e comprendere il problema del male contemporaneo alla luce di una nuova posizione critica che porterà alla formulazione del concetto di “banalità del male”, la quale diviene una nuova categoria interpretativa con cui chiunque si affacci alla tematica del male deve fare i conti.
Per capire tutte le polemiche scatenatesi dopo la comparsa di questa formulazione contenuta nel testo del ’63 su Eichmann è doveroso cercare di chiarire il contesto storico ed emotivo che fa da sfondo alle vicende che hanno lacerato l’Occidente e l’intera fiducia riposta nella ragione. L’enorme progresso tecnoscientifico insieme alla perdita di penetrazione della politica ed alla crisi dello Stato-nazione contribuiscono in misura significativa a perdere di vista il problema della responsabilità morale del singolo che viene schiacciato nel dominio della società di massa.
Dopo aver affrontato la dinamica fenomenologica del male, che da radicale diviene banale, la Arendt sottolinea l’identità politica del fenomeno, poiché esso presuppone, nella sua possibilità di attuazione, che esista una pluralità, ovvero il male affinché si manifesti necessita dell’esistenza di più soggetti che compiano e subiscano l’azione. È un problema di tipo politico anche nella misura in cui esso è concepito come privazione della possibilità di espressione pubblica della propria esistenza, la quale riceve realtà e riconoscimento nel momento in cui si “appare” sulla scena pubblica, per cui la creazione dei “laboratori della morte”, come vengono definiti i Lager, annullano la possibilità dell’espressione e rendono gli individui superflui.
La filosofia della Arendt è un’analitica della condizione umana vista sotto diverse prospettive storico-filosofiche, rese complesse dalla particolarità degli eventi nuovi che hanno caratterizzato il Novecento come il secolo del dramma, della violenza e del progresso tecnoscientifico incontrollato e dove:
Lo sviluppo tecnico degli strumenti della violenza ha ora raggiunto un punto in cui nessun obiettivo politico potrebbe ragionevolmente corrispondere al loro potenziale distruttivo o giustificarne l’impiego effettivo in un conflitto armato[1].
La riflessione sul ruolo della politica e sul senso della sua azione nel mondo si basa sulla presa di coscienza e di realtà delle trasformazioni che l’enorme potere distruttivo dell’uomo possiede, non solo rispetto all’ambiente che lo circonda, ma anche in relazione all’umanità in generale.
Se la politica cede il suo ruolo all’ideologia, alla pretesa di verità unica ed alla tecnocrazia si assiste alla perdita dell’orizzonte comune inteso come spazio d’azione libera ed imprevedibile, in cui l’unico elemento che sopravvive è il mostro totalitario, piena espressione del male politico.
Ripensare la politica dopo l’evento Auschwitz comporta un grande sforzo di comprensione e di lucidità nell’approccio con gli eventi, i quali devono essere inquadrati facendo riferimento anche alle cause che li hanno provocati. Lo sforzo della Arendt consiste proprio nella capacità di interpretare il male non dal punto di vista della teodicea, né dal punto di vista della metafisica, ma partendo dall’uomo nella sua concretezza storica ed esistenziale. Restituire senso alla politica significa dare voce agli eventi e rinunciare alla pretesa della riduzione della pluralità, che caratterizza il mondo umano, al pensiero unico che annulla le differenze. Rifondare la scena pubblica costruendo un palcoscenico “pubblico” significa cominciare a dare valore agli uomini, non all’Uomo inteso come grande categoria che in sé tutto assorbe ed appiattisce.
Il male politico, causato da un processo di perdita dei valori e della capacità di pensare e di agire di concerto nel mondo, ha come caratteristica la scomparsa del dialogo come strumento di comunicazione tra gli individui, i quali necessitano di rendersi “manifesti” ai propri simili, non perché nascano essenzialmente politici, ma perché lo diventano in quanto attori della grande rappresentazione pubblica dell’esistenza, cioè in quanto appaiono in maniera “manifesta” agli altri simili, con i quali necessitano di trovare condizioni pacifiche di convivenza.
L’uomo supera lo stato di natura attraverso la realizzazione di quell’elemento imprescindibile che lo caratterizza, ovvero la natalità, che permette ad ognuno di offrire un contributo assolutamente nuovo ed originale al proprio tempo. Durante il totalitarismo vennero formati e addestrati individui in cui la capacità di percepire la realtà nella sua complessità e diversità venne annullata, i nazisti furono “criminali da scrivania” ed “assassini” privati della possibilità, seppure remota, di provare rimorso, perché mancava la dimensione del dialogo con se stessi, del rapporto con la propria coscienza, la quale è la prima dimensione del pensiero propedeutica all’azione. Se un bene assoluto non esiste, allora neanche il male è tale, esso diventa una privazione di pensiero e di giudizio, connesso alla pretesa di dominio sulla natura e nei confronti degli uomini. Eichmann viene condannato dalla Arendt perché indegno di abitare il mondo, luogo privo di limitazione spaziale e temporale ma inteso come universo di comunicazione e di confronto con la pluralità, egli si è rifiutato di condividere lo spazio comune con altri simili, per tal motivo non può più farvi parte. Eichmann è un individuo “banale” perché la logica e la coerenza del ragionamento hanno ceduto il posto ad una rappresentazione aberrata della realtà, egli è solo un automa che risponde agli ordini e cerca sicurezza nel “nuovo ordine” creato dal regime totalitario.
La riflessione della Arendt non si limita, però, a rintracciare le ragioni e le caratteristiche specifiche del totalitarismo e del male che con esso si è manifestato in tutta la sua ferocia, ma cerca di ripensare alla possibilità che dopo Auschwitz la politica riprenda forma e forza. Se le democrazie deboli nascondono al loro interno i germi del totalitarismo bisogna pensare ad un modello politico di rifondazione che abbia come scopo ultimo la salvaguardia della condizione umana intesa in tutta la sua complessità. Tutto ciò rimane possibile solo se si rinuncia alla pretesa di ridurre la pluralità sotto il pensiero unico, perché sono gli uomini che abitano il mondo, non l’uomo inteso come specie “forte”.
[1] Arendt H., On violence, Published by Harcourt Brace & Company, 1970, trad. It. A cura di D’amico Savino, Arendt H., Sulla violenza, Le Fenici Tascabili, Parma, 2008, p. 5.